mercoledì 27 luglio 2016

VECCHIA EUROPA, PRETI EXTRACOMUNITARI CERCASI

Un fenomeno che va sempre più evidenziandosi è quello del calo delle vocazioni in Europa, Italia compresa. I seminari sono sempre più deserti e disertati, molti sono stati adibiti ad altre attività, alcuni alienati o riciclati, preti di casa nostra una specie sempre più rara. Per un analisi ci limitiamo solo all’Italia. Quella che nei secoli e nei decenni passati era considerata un laboratorio per l’evangelizzazione dei popoli e che esportava missionari in tutto il mondo sembra si sia prosciugata. Assistiamo ad una controtendenza. L’Italia ha bisogno non soltanto di immigrati economici, di braccia lavoro, ma anche di immigrati preti. Su 225 diocesi ben 208 registrano la presenza di ecclesiastici di colore e in continuo aumento. Nel 2005 se ne contavano 1.800, nel 2016 invece 2.500 con un aumento di ben 40%. Le parrocchie italiane sono 25 mila, quindi un 10% accolgono preti di colore. Con una distribuzione che va dal 54% al Centro 26% al nord e 20 % al sud. Con una provenienza del 30 % dall’Europa dell’Est, (Rumeni, Polacchi e paesi limitrofi), 21% dall’Asia (India, Cina, Filippine) e un 16% dall’America Latina e centrale. Età media dai 40 ai 50 anni. Con motivazioni alquanto diverse. Quelli dell’Europa dell’Est ci arrivano perché nei loro paesi il clero è sovrabbondante e quindi preferiscono impegnarsi all’estero. Quelli dell’Africa a motivo di miseria, povertà e soprattutto guerre. Quelli dell’America Latina anche per il desiderio di scambi culturali, di farsi altre esperienze. E qui qualcuno potrebbe chiedersi perché uscire dai loro paesi, impoverirli culturalmente e moralmente, anziché rimanere con la propria gente e garantire un certo cammino di acculturazione e di civile convivenza. Non mancano coloro che obbiettano se la loro scelta sia dovuta a vocazione oppure al desiderio di sistemazione. Altri confessano di essere venuti da noi a studiare e poi tornare al loro paese a fare i vescovi: beato carrierismo. Il periodo di permanenza si dovrebbe aggirare sui 9 anni a seconda degli accordi con i vescovi locali, ma talvolta si finisce per incardinarsi, stanti le grosse difficoltà di ritornare in patria causa le crisi politiche, vedi Congo. Osservando il fenomeno nel suo complesso vi è anche del positivo. Ad esempio si sperimenta l’universalità della chiesa, nel senso che non si rimane legati ad un luogo ma ci si sente al servizio degli altri oltre ogni confine e frontiera. D’altra parte non si possono ignorare anche diverse difficoltà, come problemi inerenti alla lingua, usi e costumi, rapporti con mentalità differenti, relazioni sociali. Però aprendo gli orizzonti, guardando più lontano e oltre il presente, questo del ripiegamento della pastorale religiosa europea verso preti stranieri non è una soluzione ma un tampone. La risposta dovrebbe provenire dal di dentro della nostra società e della nostra istituzione chiesa. Cioè noi siamo abituati da secoli e da quasi due millenni ad una civiltà clericale. Dappertutto e per ogni caso un prete. Liturgie di chiesa, oratori per ragazzi, classi di catechismo, assistenza malati, turismo religioso: sempre e dovunque un prete. Non si ha il coraggio di riforme radicali. Si continua a parlare di commissioni di studio che vanno alle calende greche a finire nel nulla fra contrapposizioni della “chiesa alta”. Anche recentemente Sandro Vitalini, intelligenza riconosciuta e non improvvisata, teologo professore all’università svizzera di Friburgo, provicario generale del Ticino con 200 preti ci cui la metà stranieri, terra elvetica di matrice italiana, sostiene la necessità di concedere il servizio sacerdotale anche a uomini sposati, e che la chiesa dovrebbe reinventarsi e non continuare a parlare di nuova evangelizzazione ripetendo vecchi schemi e metodi superati. Abbiamo bisogno, sostiene di una chiesa domestica, modello famigliare, magari sia pure con numero di partecipanti limitato, animato però da laici sposati. Come pure una soluzione sarebbe, sempre Vitalini, il diaconato femminile, dal momento che il sacerdozio delle donne sembra ancora tabù. Papa Francesco ha gettato l’idea di una commissione per studiare l’eventualità di concedere il diaconato alle donne. Ma dubitiamo, dal momento che Roma è eterna, campa cavallo. Non si pensa che tutto oggi è velocizzato e che certe riforme un tempo dibattute all’ infinito oggi devono essere celeri e messe in cantiere in tempi brevi, in riferimento alle urgenze che da tutte le parti ci pressano. Certo che l’internazionalizzazione della chiesa è segno di vitalità però non è nemmeno opportuno impostare la conservazione e la crescita del messaggio religioso a forze esterne e lontane. Nessuno di noi sventola lo slogan xenofobo: “Padroni a casa nostra”, ma risolvere i problemi di casa nostra attivando la nostra responsabilità è nella logica di ogni organismo vitale. Perciò va studiata una migliore distribuzione del clero italiano anche se in calo, un minor spreco in ambiti quotidiani ed una maggiore liberazione e promozione dei laici, soprattutto donne, che finora sono rimasti ibernati anche perché lo spazio loro concesso è sempre stato limitato e tenuto sotto stretto controllo.

Autore:
Albino Michelin
24.07.2016