martedì 12 dicembre 2017

FRA PRETI PENSIONATI ITALIANI E SVIZZERI: UNA DISCRIMINAZIONE DA SUPERARE

Nel nostro tempo la pensione è sacra. Chi l’aspetta per liberarsi da ogni impegno, per farsi le crociere, per darsi agli hobby, passeggiare col cane, chi per scrivere le proprie memorie, dedicarsi all’arte, alla musica, alla cultura. Però in fondo la professione anche se non la eserciti più’, ma l’hai scelta o te la sei identificata, resta sempre nel tuo DNA. Un aspetto interessa qui al sottoscritto e riguarda i preti pensionati. In Svizzera i missionari stranieri e a servizio degli immigrati sono circa una sessantina, di cui una ventina in pensione. Nel dato specifico ci limitiamo agli italiani del Canton Zurigo, diocesi Coira, che sono sette. Ciò che fa riflettere è la disparità di trattamento, escluso quello economico che è paritetico i preti svizzeri si riuniscono in assemblee territoriali, dette decanali, in cui sono invitati tutti i sacerdoti, indigeni, stranieri, attivi e pensionati. In Svizzera esistono anche i territori suddivisi in zone per i missionari a servizio degli stranieri, dei quali finora maggioranza italiani con aggiunti anche di altre nazioni. Pure costoro organizzano delle riunioni separate per argomenti pastorali relativi ai fedeli di lingua straniera. Nella zona Zurigo due casi recenti servono a rappresentare la situazione generale. Ad inizio novembre un Decanato svizzero di questo cantone fece le votazioni interne per eleggere il nuovo presidente. I pensionati italiani ricevettero come al solito l’invito con diritto di voto passivo, cioè eleggere anche se non il diritto ad essere eletti. E’ un comportamento antidiscriminatorio che gli svizzeri mantengono sempre sia per le riunioni, escursioni, corsi culturali. Giusto modo per fraternizzare. Diverso il discorso nella zona di Zurigo riguardante i missionari italiani. Ad inizio ottobre ebbe luogo a Bari un corso di aggiornamento: tutti invitati eccetto i pensionati, che non sono grazie a Dio zoppi e disabili, ma tutti in buona salute: ignorati, discriminati, eliminati. E tale metodo avviene per tutte le riunioni trimestrali. Eccetto quando si tratta di riunione i preghiera. Comodo, tanto si parla con Dio, ma non con i propri simili. Ovvio che il sottoscritto parla per sé, non è stato incaricato dai pensionati, anche se li conosce della stessa opinione. Si parla tanto di fraternità sacerdotale: parola magica e sacrale. Che sembra esistere soltanto in caso di morte di un pensionato, allora tutti si danno convegno in tunica e stola rigorosamente violacea, con panegirici celesti al ministro di Dio e volute d’incenso alla memoria del caro estinto. Un prete pensionato, se ha scelto questa strada per passione e non solo per professione, non tanto ha piacere mantenersi alla conoscenza del proprio mondo religioso e pastorale, ma anche è aperto al sapere, alle nuove interpretazione teologiche e bibliche per ricevere dare un contributo di esperienza. Si parla e si osanna del prete ”Sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedecco”(Antico Testamento, Salmo 110,4) e lo si canta e suona con banda e coro il giorno della prima messa. Invece nella zona di Zurigo a 75 anni, non sei più prete in eterno, anche se per ipotesi dovessi campare fino a 100 anni, finito ad tempus, depositato in garage finché morte non t’incolga. Questa prassi discriminatoria non esiste nemmeno nelle congregazioni religiose. Dove per esempio in quella di appartenenza del sottoscritto (Scalabrini), tutti sono invitati con voto attivo e passivo alle elezioni della Direzione, alle riunioni di settore, corsi di cultura e aggiornamento. Concediamo e siamo pure d’accordo che quando un sacerdote va in pensione non dovrebbe più interferire nella pastorale e nel lavoro del suo successore. Ma qui siamo in altro campo, anche se esistono eccezioni di pensionati che restano nella stessa parrocchia come collaboratori, pur senza responsabilità giuridica. Per dilucidazione mi si consenta un caso personale: allorché il sottoscritto si pensionò e dopo due anni la Missione celebrò il 50° di fondazione nella quale lavorò per 28 anni fu invitato a partecipare, ma declinò l’invito. Ovvio con dispiacere e delusione della gente. Però se al momento delle dimissioni gli si ingiunse di non interferire, non c’è motivo dell’invito. Può essere considerato una manovra per dare pompa al festone e ostentare “fraternità sacerdotale”. Coerenza cercasi, coerenza esigesi: è doveroso che il “popolo di Dio” lo sappia. A questo discorso andrebbe collegato, anche se indirettamente, quello delle sostituzioni. Vi sono missioni in cui per celebrare una messa si ingaggia un prete a distanza di 200 km. quando a 100 metri abita un missionario pensionato, il quale a sua volta viene invitato a celebrare una messa ad altri 200 km di distanza, il tutto perché pende la proibizione(?) di dire la messa nella sua parrocchia precedente. Ovvio con spreco di denaro, civiltà dello spreco direbbe Papa Francesco, tanto paga pantalone, cioè il popolo di Dio che versa le sue tasse di culto in fiducia, ma che se lo sapesse comincerebbe a farsi qualche pensierino. Queste osservazioni non sono un grido di allarme, nessun vittimismo, nessun SOS, ma una doverosa denuncia, sinonimo di annuncio per un superamento della discriminazione su citata ed eventuale utilizzo di preti pensionati ancora disponibili, molti dei quali in grado di prestarsi gratuitamente.

Autore:
Albino Michelin
10-12-2017

lunedì 11 dicembre 2017

DONNE: DOVE DIO È CREDUTO MASCHIO, IL MASCHIO SI CREDE DIO

Non vale la pena qui ritornare su un argomento trattato e ripetuto in questi periodi sulla violenza contro le donne. Sappiamo già tutto o quasi che nel 2016 in Italia sono state uccise dal partner 120 donne, una ogni due giorni, in Svizzera una ogni 20 giorni, altrove con alcune varianti. Come il fatto che sempre in Italia circa 7 milioni di donne dichiarano violenze fisiche o morali, specie all’interno delle mura domestiche. E sappiamo anche delle disparità salariali uomo-donna, delle difficoltà di accesso per le donne a pubblici impieghi, nei settori dirigenziali che contano, alla facilità di licenziamento. E lamentiamo che il mondo sia troppo maschile. Non ci sembri strano affermare che forse fra le tante cause, una e non l’ultima va ricordata: l’influsso della religione e della nostra cultura millenaria. Quella cristiana si è formata a partire dall’immagine di un Dio maschile. Sappiamo che al principio invece Dio è nato nella mente umana al femminile. Per millenni l’umanità piena di meraviglia dinnanzi alla capacità della donna di generare nel suo corpo il miracolo della vita venerò la Dea Madre, vedendo nel corpo della donna l’immagine del divino. Nel tempo la rivoluzione agricola con cereali e animali portò con sé anche la necessità di difendere con le armi i granai, le terre, il bestiame. Così a poco a poco la Dea madre venne marginalizzata e si imposero le divinità maschili, guerriere, che si fecero quotidiane razzie ed legittimarono sacrifici di sangue a loro onore. Dio maschio si impose su tutti i popoli della terra e prese il sopravvento su tutte le religioni. E anche in Israele la Dea Madre diventò Jahwe, dio degli eserciti, adorato dai sommi sacerdoti, tutti rigorosamente maschi e si radicò nell’immaginario del popolo ebraico e più tardi di quello cristiano. E così inizia la cultura religiosa patriarcale. Di fatto è comparso dio come un vecchio con la barba, un re con corona e scettro seduto sul trono, un giudice inappellabile. Partendo dalla nostra realtà culturale possiamo affermare che Dio per quanto non abbia sesso ha però da migliaia di anni un genere, il genere maschile. Nel Natale si celebra un dio padre che genera un figlio, tutti e due maschi. Sappiamo che il sesso è una caratteristica biologica anatomica, il genere invece una costruzione culturale. Per questo sebbene in Dio sia presente tanto il femminile, quanto il maschile, nella cultura ebraico cristiana, cattolica, protestante, ortodossa, come pure nell’Islam Dio è immaginato, pensato, concepito, pregato, cantato, scolpito, dipinto, rifiutato come maschio. Come pensare allora che questa identificazione plurimillenaria culturale di Dio con la maschilità non abbia conseguenze nella società umana, rapporto uomo-donna, marito-moglie, operaio-operaia? Costruire il volto di Dio anche al femminile non avrebbe importanti conseguenze nel comportamento e nella spiritualità uomo-donna del nostro tempo? A patto però di rileggere la stessa Bibbia e non lasciarsi incatenare dal letteralismo. Ovvio che quanto espresso nella Bibbia va contestualizzato e reinterpretato. Ad esempio perché Mosè nel decalogo vieta all’uomo di desiderare la donna degli altri e non vieta alla donna di desiderare l’uomo degli altri? Semplice: perché la donna veniva considerata un’incapace, nullatenente, manipolabile, strumentale. Gesù nel Vangelo ha tentato di superare per quanto consentito la mentalità del tempo e usa paragoni e parabole al femminile, come la cura, la compassione, la vicinanza, l’empatia, l’intuizione. Si pensi alla parabola del lievito dove a impastare il pane sono le donne, oppure a quella delle monete perdute, dove Gesù femminilizza Dio assomigliandolo ad una donna che cerca ansiosamente l’introvabile. Ma anche lui è arrivato dove una mentalità preistorica gli consentiva. In effetti chiama Dio Abba (papà), ma non passa a chiamarlo Imma (mamma). E anche per la donna sacerdote non poté valicare il muro del suono, lasciando però al tempo la capacità di evolvere verso un ruolo che oggi sarebbe una legittima parità di diritti. Prigioniero della mentalità corrente è pure Paolo quando vieta alla donna di parlare in pubblico, ordina di coprirsi il capo perché essa deriva dall’uomo, fu creata per l’uomo, è la gloria dell’uomo (1° Lett.Corinti,11). Se Dio è stato visto o continua ad essere visto come maschio che regge l’universo e l’umanità dall’alto e da fuori, che ordina, impone, giudica, anche l’uomo maschio si metterà a ordinare, imporre, giudicare, decidere sulla donna. Sebbene non sembri, con la religione e con le religioni bisogna sempre fare i conti in quanto, voglia o non voglia, fanno parte del nostro DNA dagli albori dell’umanità’. Certo sta anche qui la radice più antica e nascosta, che a torto legittima oggi disuguaglianze, disparità, violenze degli uomini nei confronti delle donne.

Autore:
Albino Michelin
08-12-2017

mercoledì 22 novembre 2017

LE CONFESSIONI PUBBLICHE DELLE DONNE VIOLENTATE: VITTIME O COMPLICI?

In tempi non lontani la confessione su determinati comportamenti sessuali veniva fatta al prete e sotto segreto professionale. Oggi invece roba del genere viene divulgata in pasto al pubblico specie dalla TV che ha anche istituito il suo confessionale del Grande Fratello. Il passato mese di ottobre è stato caratterizzato da uno sciame di donne, in genere attrici, starlet, subrette, miss che si sono impadronite dei microfoni per divulgare a tutti gli stupri e le violenze subite, in genere 20 anni fa e oltre. Per alcuni un grido di allarme, per altri un boomerang, cioè una forma di suicidio. Sta diventando una vera battaglia sulla credibilità di chi denuncia e di chi è denunciato. Questa irruzione merita una riflessione culturale più che gossipara e lo spunto ci viene dato da Asia Argento che accusò di violenza sessuale il suo produttore cinematografico di 20 anni fa, certo Weinstein di Hollywood. Qui non è il singolo caso che ci interessa, ma il mondo e la mentalità in cui si inserisce. Tenendo presente che questi comportamenti avvengono ovunque: in famiglia, al lavoro, negli alberghi, nella scuola, nei ministeri. Bisogna subito fare una premessa partendo dalla base biologica uomo-donna, in riferimento alla procreazione. L’uomo è parte attiva in quanto detentore del seme. La donna parte passiva in quanto il seme lo riceve, lo gestisce, lo porta a compimento. Se non vi sono incidenti di percorso dal punto di vista educativo e psicologico l’uomo nei confronti della donna è portato a fare richieste ma se gli manca l’autocontrollo si spinge verso la conquista di lei talvolta in modo istintivo: molestie, violenza, stupro, femminicidio. D’altra parte abbiamola la psicologia della donna, quella di esibirsi, di farsi notare con il culto dell’immagine e se gli manca l’autocontrollo finisce con l’esposizione del corpo, provocazione, cattura dell’uomo ai suoi intenti. E così avviene che le persone non educate e prive di ogni etica sessuale ti vanno a gridare che tutti gli uomini sono por…, tutte le donne sono put… Per un approfondimento del fenomeno si può partire dalla posizione delle donne, come si evince da una trasmissione-intervista ad Argento e a Vladimir Luxuria, chiaramente interpreti a difesa del genere femminile. Quando la ragazza, specie se all’inizio del lavoro, viene seviziata dal “bruto laido”, teme che questi gliela faccia pagare se non scende a compromessi e di restare sulla strada. Si sente indifesa, bloccata, umiliata, le manca il coraggio di confidarsi. Sa o pensa che l’uomo è un pescecane, un predatore che aspetta la sua preda per ingoiarla e accontentare i suoi nefandi capricci. Inoltre l’uomo vuole esibire la sua potenza e superiorità maschilista, umiliando la donna considerata a torto un essere debole e inferiore. Passando invece al mondo maschile si obbietta che la donna esibisce il suo potere nei confronti dell’uomo con l’astuzia del fisico, con l’uso del vestito e dello svestito fuori luogo e in tutti i luoghi, con le sue finzioni alla Belen ad esibire la farfalla inguinale quale pudicissima ’impresa, nel nicchiare sempre a spiegare quando e che cosa intende per stupro, se il tocco, la sfiorata, l’avance, la violenza. E qualche volta la violenza pure se la inventa. E si aggiunge come mai le donne parlano solo dopo vent’anni quando hanno la pancia piena di soldi e di successo. Al momento del palpeggio o del fattaccio dov’erano? Comodo svendere la propria dignità per un pugno di dollari. Vogliono pubblicizzare a tutti il loro eroismo mai esistito? La loro illibatezza verginale scippata dall’orco di turno, quando invece era già sparita al vento nella prima adolescenza con i morosetti coetanei? Recentemente don Guidotti, un prete un po’ focoso di Bologna, ad una ragazza che denunciava una violenza da parte del “solito” marocchino grida:” se vai sempre allo sballo, te la meriti, io non sento pietà.” Anche se l’espressione non ci trova consenzienti, insinua però che chi è causa del suo mal pianga se stesso. E che spesso l’orco che induce è la donna stessa. E quanti riferiscono di ragazze e donne che al primo approccio se l’uomo non ci fa il regalino, non sdruscia con la manina lo mandano a quel paese affibbiandogli del finocchio o dell’impotente? A ben osservare i confini fra i due mondi non sono così precisi. L’uomo approfitta del suo potere sulla donna? Altrettanto la donna sull’uomo. Al di là dei due schieramenti si potrebbe tentare un’osservazione neutrale su vittime e vittimismo. Essere vittime da’ prestigio, suppone ascolto, promette e promuove riconoscimento, attiva un potente generatore d’identità, diritto, autostima. Immunizza da ogni critica, garantisce innocenza al di fuori di ogni ragionevole dubbio. Essere vittime, o inventarsi tali, conferisce potere proprio perché la vittima non risponde di nulla, non ha bisogno di giustificarsi. In questo contesto non dobbiamo certo dimenticare le colpe e le cause della storia passata. Allorché una donna rimaneva incinta fuori del matrimonio veniva vituperata e colpevolizzata perché una brava ragazza non doveva comportarsi così, mentre il maschio circolava in bello stile a testa alta. Impensabile al tempo che una donna violentata potesse denunciare e difendersi. La colpa era sempre e soltanto sua. Ovvio che oggi anche se in ritardo si voglia inconsciamente risarcire del mal tolto. Ma anche la chiesa con la sua insistenza sul binomio diavolo-donna ha le sue colpe. I libri della morale riservavano poche paginette sui doveri sociali, ma un libro intero sul comportamento sessuale. E andavano anche ai dettagli sulla vivisezione del corpo femminile: dalla testa al collo zona onesta, dal collo all’ombelico zona meno onesta, dall’ombelico alle ginocchia zona disonesta. Il tutto a scapito del sesso affettività. Nel nostro tempo andrebbe riveduta la morale del settore e in questo pansessualismo trovare un’etica ed un orientamento affinché i due poteri maschile e femminile possano reciprocamente collaborare per la formazione delle nuove generazioni, oggi vittime di   mercificazione sessuale.

Autore:
Albino Michelin
22-11-2017

giovedì 2 novembre 2017

L'ISIS CATTOLICA VA DI BRUTTO SULL'"ERETICO" PAPA FRANCESCO

Si potrebbe chiamare Isis cattolica non certo quel pezzo di Stato terrorista siro-irakeno, quasi si fosse infiltrato come quinta colonna nell’istituzione chiesa cattolica, ma una dura resistenza formatasi da molti cattolici di ogni ceto, cultura e appartenenza politica contro la missione di Papa Bergoglio. Per quanto egli sia il rappresentante della cattolicità solo dal 2013, le reazioni in breve tempo si sono coalizzate talvolta in modo soft, tal altra sotterraneo, tal altra vistoso, fondamentalista, integralista, conflittuale. Il suo dire e agire viene dai cattolici dello zoccolo duro considerato lassista e causa della deriva dell’ultimo periodo, una globalizzazione dell’indifferenza e del relativismo, reo anche di aver abolito il vocabolario sacro di “Sia lodato Gesù Cristo, Sua Santità, Sommo Pontefice, Vicario di Cristo” con il laico “buona sera, buon giorno, buon appetito, cari fratelli.“ Basta leggerne i sintomi: non si è mai avuto sin ora una così consistente concentrazione di profezie che prospettano un futuro catastrofico. Parlano di guerra finale, di cielo contro la terra e viceversa, distruzione, castighi planetari di Dio contro un mondo diventato ateo come non mai. SOS, si salvi chi può. Basta aprire il cellulare per vedersi arrivare ogni giorno messaggi sul tipo:” oggi dalle ore 9 per un giorno continuato inizia il digiuno con la recita del rosario perché la Madonna ci eviti i castighi di suo Figlio”. In questo sono trainanti le emittenti cattoliche, tipo Radio Maria, che con sicumera e sadismo spirituale condanna all’ inferno eterno gli impenitenti di ogni categoria. Dall’alto si è già dovuto procedere ad una epurazione nello staff dirigenziale allorché dopo il terremoto di Amatrice nell’agosto del 2016 certo P. Cavalcoli venne licenziato per aver dichiarato che tale disgrazia è castigo di Dio contro le coppie di fatto. Ma fu come lavare la testa all’asino. Passato l’episodio, lo staff imperterrito e noncurante continuò con arroganza nel suo terrorismo Isis, pilotato dal suo direttore Livio Fanzaga. Capofila dei profeti di sciagura è Antonio Socci, esponente di Comunione e Liberazione e Opus Dei, scrittore per altro forbito e accattivante, che inviò al Papa il Suo libro “Profezia finale”, in cui aggiungeva una “filiale” letterina mettendo in discussione la validità della sua elezione. E come scrive in altro libro “Non è Francesco” gliele canta e gliele suona, ribadendogli che sta dividendo la chiesa, sta umiliandola, svalutando i suo dogmi e i suoi fondamenti divini. Bergoglio gli risponde brevemente ma rispettosamente: ”caro fratello Antonio, anche le critiche ci aiutano a camminare” (17.4.15). Col passare dei mesi monta l’onda della contestazione, contro un Bergoglio che fra l’altro avrebbe un solo chiodo fisso: i profughi, il dialogo con i musulmani, i morti di fame. Un caso tipico è il gruppo dei “Dubia”, capeggiato da 4 cardinali Caffara, Meisner, (nel frattempo deceduti) Burke, Brandmüller che il 22 aprile scorso organizzano un’assemblea, affollata di cattolici integralisti all’Hotel Colosseum di Roma, in pratica annullando le strutture portanti dell’enciclica “Amoris laetitia” di Bergoglio, nella quale questi ammette la possibilità della comunione ai divorziati, previo discernimento di coscienza. I convenuti stilano un documento, lo inviano al papa sostenendo che il matrimonio non va banalizzato, è sacramento indissolubile, che i divorziati si estromettono essi stessi volontariamente dalla comunione. Il Papa non risponde in quanto la sua posizione è già a tutti nota da tempo. Il 23 settembre u.s., firmata da Gotti Tedeschi, ex presidente della banca vaticana Jor dimesso nel 2012 viene spedita una lettera con 62 aderenti, membri di gruppi cattolici tradizionalisti, in primis i seguaci di Lefebvre. Accusano Bergoglio di sette eresie, praticamente lo estromettono dalla chiesa, come nei primi secoli lo furono gli eretici Papa Liberio e Onorio. Ancorché ci tengono a ripetere il solito logo ”amore filiale”. Per oggettività bisogna sottolineare che accusano il suo comportamento perché condurrebbe i fedeli all’eresia. In pratica Bergoglio sarebbe il cocchiere che conduce la chiesa allo sbando. Non è qui il caso di dettagliare il contenuto delle 7 eresie. In succinto:” non sempre per l’uomo è possibile seguire la legge di Dio, la sua misericordia è più grande del nostro peccato. Niente proselitismo, solo testimonianza, Dio non è cattolico, quindi dialogo con le tutte le religioni…” Queste accuse vengono bene accolte ampliate, interpretate e divulgate da tutta una stampa di destra con i suoi corifei come il Giornale, il Foglio, Libero, Verità. Non passa giorno che non pubblichino nelle tribuna dei lettori una fiera di dissensi e attacchi contro un papa così indigesto. Non sembra difficile individuare i motivi di tanta acredine e delineare la tipologia dei cattolici che ne fanno parte. Anzitutto i conservatori per i quali scostarsi dalla tradizione significa tradimento, anziché evoluzione. Pensare anche con la propria testa si sentono persi, hanno bisogno di un ombrello protettivo, per pigrizia mentale incapaci di usare anche la propria coscienza. Aggiungi i fondamentalisti: quelli che hanno bisogno di autorità, di paletti, di divieti, proibizioni per sentirsi al sicuro, e garantiti da ogni rischio identificando fedeltà con testardaggine, quindi si difendono con ogni arma anche con la calunnia. Aggiungi i narcisisti, quelli del culto verso la propria immagine, che si sentono importanti allorché possono opporsi ad ogni novità. Tipi detti normalmente “bastian contrari” di professione, per ritagliarsi uno spazio di pubblicità’. Per costoro ed altri di questa tipologia è fissa, quasi maniacale l’idea che la chiesa appartiene a loro, e loro ne sono i proprietari. Indubbiamente anche la chiesa in 2000 anni ha avuto le sue colpe allorché si è barricata in un castello monolitico, chiuso a doppia mandata, e come impero sulle anime e sui corpi, spesso con terrorismo psicologico. Per cui adesso un po’ di mea culpa le fa bene perché raccoglie in parte ciò che ha seminato. Lo ammette anche Papa Francesco, consigliando i credenti ad esporre le proprie opinioni con libertà di parola. Certo che gli integralisti francescofobi cattolici non usano le armi e le bombe come l’Isis, ma un linguaggio intollerante e insolente sì, senza pensare che spesso ne uccidono più la lingua e la penna che non la spada.

Autore:
Albino Michelin
02–11-2017

domenica 22 ottobre 2017

PAPA GIOVANNI XXIII PATRONO DEGLI ESERCITI: UN OLTRAGGIO ALLA MEMORIA

Una bella chicca al Papa buono. Da alcuni decenni in chiesa non si recita più il "Santo Dio degli eserciti, perché tradotto nel più accettabile "Dio dell'universo", meno guerresco. Adesso è il turno di Papa Giovanni. Si tratta di un decreto firmato il 17.6. u.s.daI Cardinale Guinea-africano Sarah, presidente ultra conservatore del dicastero Vaticano del culto. Pare che lo stesso Papa Francesco ne fosse all'oscuro e nemmeno il segretario di Stato Parolin ne fosse informato. E il 12 settembre il Vescovo Generale del Corpo d'Armata S. Marcianò consegnò il decreto ufficialmente alla Ministra della Difesa Pinotti e alle autorità militari in un’assemblea ufficiale. E così Papa Roncalli (1881-1963) lo vedremo venerato d'ora in poi con l'elmetto in testa e il kalashnikov a tracolla. E' vero che nel 1901 all'età di 20 anni Giovanni Roncalli, seminarista a Bergamo, prestò servizio nel Regio Esercito italiano a sostituire il fratello Zaverio per necessità di lavoro nei campi. Ma dopo un anno si congedò abbandonando l'uniforme. E' vero che il 23.4.1915 allo scoppio della prima guerra mondiale viene richiamato in servizio e destinato all'ospedale di Bergamo come cappellano militare, condizionato e obbligato dal clima interventista del tempo, come di fatto avvenne anche a don Primo Mazzolari, parroco di Bozzolo nel Mantovano e difensore di pace. Ma alla fine della belligeranza se ne tornò alla vita ecclesiale esprimendo in pubbliche omelie profonda avversione alla guerra. Conosciamo tutti il suo percorso di pace fino al 1958 quando fu eletto papa, e apprezziamo l'evoluzione umana e spirituale che ha fatto di quest'uomo un pastore da oltre mezzo secolo emblema della pace e del rifiuto di ogni guerra. Né si può dimenticare il contributo singolare del 1962 per scongiurare il pericolo di un conflitto mondiale atomico fra Usa e Urss superando la crisi dei missili nella questione Cuba. E il contributo al primo disgelo nella guerra fredda ricevendo nel 1963 Rada figlia di Kruscev, l'allora potente segretario del partito russo. Verso la fine del suo papato emanò l'enciclica "Pacem in terrìs", in cui auspica il disarmo integrale condannando la guerra anche "giusta" quale fenomeno assurdo, alieno dalla ragione, come dire, roba da matti. Gli organi della Curia Romana in alcuni periodi del suo successore Wojtyla tornarono purtroppo a legittimare il mercato delle armi. Ricorda la denuncia di P. Zanotelli, mandato per castigo fuori dai piedi, al confino nel Kenya a catechizzare i bambini dell'asilo. Ora con questo decreto lo si vorrebbe tirare per la manica e giustificare la nostre guerre umanitarie e bombardamenti intelligenti in Kosovo(1999), in Afghanistan(2001), in Iraq (2003), in Libia(2011). Le reazioni da ogni parte, comprese quelle del mondo cattolico, non tardano. Questa uscita della Congregazione del culto non passa inosservata, anche perché prende in contropiede l'opinione pubblica, curia vaticana, e molti del clero compresi. Il Cardinal Bassetti, presidente dei vescovi italiani, dichiara di essere stato tenuto totalmente all'oscuro. C'è chi suppone un piccolo golpe al papa e una lezioncina per le sue aperture non molto condivise. Il vescovo Ricchiuti, presidente della Pax Christi: "assurdo umiliare papa Giovanni a patrono degli eserciti per legittimare le pazze spese militari dell'ltalia, 23 miliardi di euro per il 2017, una decisione che non rappresenta il sensus fidelium, la sensibilità dei fedeli, il buon senso. R. Nogaro, vescovo emerito di Caserta: "mi indigna questa vituperazione, fa orrore questa speculazione sulla sua immagine." Lo storico S. Tanzanella: "Il Generale vescovo Marciano' ha fatto un gesto sconsiderato arruolando Papa Giovanni alla protezione delle forze armate, oggi che il mondo è diventato un focolaio di guerre". Lo storico della chiesa A. Melloni rincara: "decreto tecnicamente nullo e politicamente una vendetta, complotto meschino e ingenuo". E P. Ramondo della Comunità di S. Egidio:" Ribaltare il ruolo. Opportuno che questo papa fosse stato proclamato patrono degli operatori di pace, di tanti giovani che svolgono servizio civile nelle zone di conflitto per abbattere muri e costruire ponti." Come conclusione pratica un discorso di fondo andrebbe fatto sulla presenza, il ruolo, il finanziamento pubblico dei cappellani militari. In Italia ne abbiamo 205 e con stipendi dorati, di veri nababbi. Il nostro Governo ha stanziato 30 milioni per il triennio 2017-19. E 3 milioni per le pensioni. In dettaglio un cappellano militare prende 4.100 euro di stipendio mensile. Se ne va in pensione con 3 mila euro al mese. Con aumenti secondo i gradi, di sottotenente, tenente, colonnello, ecc. Aggiungi retribuzioni varie, benefit, vitalizi. Il Vescovo militare poi, paragonato al Generale d'Armata, udite udite, il su citato Marciano', intasca 9.500 euro al mese e con la tredicesima arriva a 124 mila euro annui alla faccia dei pensionati, dei disoccupati, dei profughi. Mai un'osservazione critica si è levata dai cattolici devoti e dai nostri politici, mai un cenno di riforma. Leghisti, Cinque stelle, Pd, Fi. e Co. Dio ce ne guardi, ovvia la genuflessione deferente e bacia mano alla chiesa per garantirsi poltrona e carriera. La religione in Italia strumento di potere. Molti cittadini sensibili, praticanti o meno, inviano petizione al papa perché annulli l'insensata decisione, il decreto del Cardinale Sarah. Recentemente l'attuale Papa Francesco ebbe a dire:" non ci servono preti con i gradi." Ma neanche lui può di punto in bianco cambiare una legge del 1961 e anni successivi che equipara il sacerdote in divisa agli ufficiali dell'esercito. Papa Giovanni XXlll lasciamolo così com'è nella memoria popolare: l'hanno fatto anche santo. Resti per tutti il Papa buono, ma non mettiamogli l'elmetto in testa e il kalashnikov tra le mani.

Autore:
Albino Michelin
21-10.2017

venerdì 20 ottobre 2017

IO VENETO IN SVIZZERA SUL REFERENDUM "AUTONOMIA VENETA" DEL 22.10.2017

Lungo la strada Cadorna che porta da Bassano sul Monte Grappa al km.10 in un’enclave fra le rocce detta Costalunga sono visibili tre colonne mozze con relative dediche, la prima ai soldati caduti nella guerra mondiale 1915-18, la seconda ai caduti civili, la terza agli escursionisti. Nel mese di settembre u.s. ignoti hanno fatto sparire la bandiera italiana, quale simbolo testimone della memoria storica, e vi hanno issato il gonfalone di S. Marco, ovvero la bandiera veneta. Dopo qualche giorno tale drappo à stato rimosso e ripristinato il tricolore. La convivenza dei due vessilli non era ovviamente sostenibile, troppe le contraddizioni soprattutto in un luogo come il Monte Grappa, dove l’eroismo e il sangue versato non ha fatto distinzione fra popolo italiano e popolo veneto. Non si vuole qui mettere in discussione il valore e l’importanza a dei simboli regionali, locali o personali. Io pure indosso una calzetta bianca ed una rossa quale simbolo del Vicenza calcio con cui parte di me stesso si identifica. Ma ogni cosa al suo posto. Noi veneti non dobbiamo dimenticare che, per quanto la prima guerra mondiale abbia avuto come teatro il territorio del nostro Nordest, però per la causa, giusta o sbagliate che fosse, sono morti anche soldati piemontesi, abruzzesi, siciliani senza distinzione. Noi veneti dovremmo farci una visitina ai vari sacrari militari, monumenti ossari esistenti. Come Redipuglia (Gorizia), 100 mila sepolti, con incisa su ogni loculo la scritta ”presente”. Non sono soltanto veneti, ma italiani. Asiago(Vicenza), ossario con 55 mila caduti (di cui 35 mila raccolti dal vicino Ortigara). Monte Grappa (Vicenza-Treviso-Belluno) con 22.950 caduti, non solo veneti, ma italiani. Monte Pasubio(Vicenza), 13 mila caduti. Montello (Treviso), ossario con 10 mila caduti non solo veneti, ma italiani. Caporetto (oggi Kobarid in Slovenia) ossario con 7 mila caduti, non solo veneti ma italiani. Tralasciamo gli ossari considerati minori. Memoria storica dovrebbe insegnarci un po’ di prudenza e di rispetto per non finire sempre a dividere l’Italia con chiassate di osteria. Sono partito un po’ da lontano a trattare l’argomento però nel subconscio di noi veneti esiste questa diffidenza, in effetti in troppi abbiamo applaudito quando il guru del nostro partito preferito nel 2001 ha gridato ad una signora dalle finestre della Serenissima: ”la bandiera italiana la butti nel cesso”. Certo, rispetto per chi vota al referendum e rispetto sul risultato che ne conseguirà. Come nulla da eccepire sulla legge regionale riferentesi all’obbligo di esporre nei luoghi pubblici anche la bandiera veneta. Però dovremmo farci pure un esamino di coscienza sul linguaggio usato nei confronti di chi non è dei nostri. Non si vorrebbe ritornare al 1960 quando una poesia stilata da uno dei nostri in Svizzera iniziava con la prima strofa: ”o Gesù dagli occhi buoni fai morire tutti i terroni” O altre espressioni piu’ recenti: “Gli stranieri sulle panchine di Treviso? Pim, pum, pam, e farli fuori come leprotti”. Oppure sulla Kyenge, ministra dell’integrazione: ”Un orangutan”. Oppure sulle carrette del mare: ”sparare a vista, uno, cento, mille di meno. Peccato che poi il mare tocca a noi ripulirlo”. I rom? “Feccia della terra”. Oppure ironia: ”ogni anno il maialino day in onore dei negri musulmani”. La parole sono pietre, questo linguaggio dell’insulto è per troppi di noi pane quotidiano. E anche un esamino di coscienza dovremmo farcelo sulla nostra tanto decantata moralità ed onestà. Il Veneto annovera lo scandalo Mose, la famosa diga lagunare, una cucciolata di arresti, una maxi tangentopoli con milioni di frodati fra la povera gente, sufficienti a sistemare pensionati e profughi per un mese ed oltre, una metastesi di furbastri, il nostro governatore Galan in galera. E il recente crack delle banche venete con migliaia di clienti a bagnomaria? E l’inquinamento delle falde acquifere? Altro che un esamino di coscienza. E non tiriamo in ballo il Veneto bianco, sacrestia d’Italia. Come nella recente dichiarazione del governatore Zaia del 4 ottobre u.s.: ”sono cattolico, frequento la messa…Il papa pensi alle anime, io penso ai corpi. ”Ad ognuno la sua cultura, il nostro si legga il vangelo quando Gesù di fronte ai malati non se la svignava dicendo: ”io penso all’anima, al corpo ci pensi Cesare Augusto imperatore romano”. Noi veneti imbevuti di atavico clericalismo siamo astuti e abilissimi a strumentalizzare la religione a scopo politico. Con ciò, beninteso, non vogliamo minimizzare il valore delle nostre critiche e richieste al Governo centrale: lo Stato italiano approfitta troppo dei veneti: ”Veneto polenton, laora e tasi”. Tasse esorbitanti che finiscono a Roma, e scendono a regioni che ne approfittano per pigrizia e corruzione. Insegnanti, docenti, magistrati del Veneto che si vedono sorpassare dai loro simili del sud con minor meritocrazia e spediti avanti per busterelle, spintarelle, amicizie facili. E’ vero, o almeno in parte. Però la moralizzazione avverrebbe anche cambiando il nostro metodo nello scegliere i nostri rappresentanti al governo, cioè non veneti che pensino solo al proprio orticello, padroni a casa nostra, ma anche con una concezione etica a tutto campo, di impegnarsi per tutta la nazione, evitando così la frammentazione d’interessi e la concorrenza di partito. Lavorando per il bene comune globale se ne avvantaggiano anche le situazioni regionali e locali. Aldi là di tutti questi motivi, ovvio che la mia posizione è quella dell’astensione. Non per propaganda o supponenza, ma perché vivendo in Svizzera e all’estero noi veneti siamo a contatto con italiani di ogni regione, specie del sud, che lavorano, onesti, si sono fatti una vita con tanti sacrifici e anche inconsciamente sarebbe un affronto, una discriminazione sbandierare loro in faccia la nostra autonomia veneta. Come italiani ci sentiamo una famiglia. Con l’augurio che il Veneto possa raggiungere le sue legittime aspirazioni scuso la mia assenza presso il seggio di Bassano del Grappa che mi ha inviato la cartolina d’invito.

Autore:
Albino Michelin
20.10.2017

lunedì 11 settembre 2017

LETTERA APERTA AD UN PARROCO IN RIFERIMENTO ALLA CELEBRAZIONE DI UN MATRIMONIO

Gentile Signor Parroco,

Ritengo necessaria la presente chiarifica indirizzata a lei e ai partecipanti al matrimonio da me celebrato sabato 8 giugno in una chiesetta alpestre. Occasione opportuna per una presa di conoscenza e di coscienza da parte della comunità di cui io, Lei e tutte le altre persone facevamo e facevano parte. Ogni esperienza di questo genere dovrebbe costituire un seme di speranza. Trasparenza e coinvolgimento stanno alla base di ogni messaggio (o rito) che si voglia chiamare cristiano. Lunga e doverosa premessa per venire alla sostanza.

Al Matrimonio su citato sono stato invitato dalla madre dello sposo, in quanto a suo tempo avevo celebrato il suo matrimonio, amministrato il battesimo dei suoi primi due figli nella parrocchia di Uster, Canton Zurigo, per trent’anni quale missionario Scalabrini, parroco in un paese limitrofo. E nel 1999 invitato a celebrare le nozze d’argento nella stessa chiesetta alpestre. Lei quindi aveva qualche motivo per andare in fiducia nei confronti del sottoscritto. Per rispetto alla privacy, tralascio il Suo nome e quello degli interessati. L’idea di questa lettera è tutta mia e l’ho scritta all’insegna della chiarezza e oggettività.

LA CERIMONIA
È durata un’ora dalle 11.15 alle 12.15. Padrone a casa Sua, Lei ha voluto giustamente seguire tutta la celebrazione. Ma ebbi un dubbio e capii che qualcosa non girava. In effetti al termine della messa Lei con cipiglio inquisitorio mi apostrofò: “Ma lei è un prete cattolico o protestante? Io dubito che questo matrimonio sia valido. E poi la messa strapazzata con varianti inventate fuori norma”. Un coacervo di aggressioni ad alzo zero. Intelligenza mi sostenne per evitare una rissa, chiudere il becco, e rinviare risposta a tempo debito. Sono passati diversi giorni ed eccola con ordine.

MALEDUCAZIONE.
E’ maleducazione da parte Sua l’aver spedito sull’altare durante il Padre nostro la signora per avvisarmi di “tagliare”, in pratica di smetterla e piantarla lì. Alle ore 12 per giunta Lei fece suonare la campana per rincarare la dose, non ci si capiva nulla, ma la dovevo chiudere. Alla fine della messa Lei mi fece leggere i canoni dello stato italiano, sbattendomi il testo sulle mani, forse per non sbattermelo in faccia. E poi in sagrestia il dessert di cui sopra. Insomma un buttafuori.

PRETE CATTOLICO O PROTESTANTE?
Anche se sono un prete cattolico, premetto che trovo inaccettabile da parte Sua questo disprezzo nei confronti dei cristiani, pastori e pastoresse riformati, chiamati protestanti. Lei è rimasto dell’idea che Dio sia cattolico. Papa Francesco (PF) invece no. Lo dimostra il fatto che alla fine di ottobre 2016 visitando la signora Lund, arcivescovo primate svedese, in occasione dei 500 anni della riforma, affermò che i cattolici hanno qualcosa da imparare anche da Lutero. Lo comprova pure il fatto che nel 1999 la chiesa cattolica abbia sottoscritto la dichiarazione congiunta con i protestanti “giustificazione per la sola fede”, tesi promossa da Lutero. Quindi il dubbio-accusa nei miei confronti mi obbliga a prendere la difesa dei protestanti e a ribellarmi di fronte a chi palesa nostalgie per le guerre di religione. Ma non è necessario riferirsi al gesto di un papa per accorgersi della verità di un comportamento. Perché la verità non è solo quella che proviene dall’autorità sia pure papale o col suo timbro postale, ma quella che scaturisce dall’esame della realtà.

QUESTO MATRIMONIO E’ PERFETTAMENTE VALIDO
Lo dimostrata il fatto che Lei ha richiesto la firma dei contraenti e del sottoscritto dopo il rito. Se aveva dei dubbi avrebbe dovuto o potuto rifarlo Lei come parroco del luogo. La Sua rampogna mi porta ad una ulteriore riflessione: Lei m’insegna che fondamento del matrimonio, cioè che fa il matrimonio è l’amore dei due, non la stola del prete, né la fascia tricolore del sindaco. Lei m’insegna che per Gesù il matrimonio non è un precetto giuridico, ma un ideale da raggiungere. Da Gesù fino al Concilio di Trento 1560 circa non esisteva il matrimonio davanti al prete, ma la chiesa riteneva valido ogni matrimonio stipulato secondo le usanze dei singoli popoli. E che vale di più un amore senza matrimonio che non un matrimonio senza amore. E, sempre Lei m’insegna, che oltre ad accompagnare i giovani al matrimonio fatto nell’amore, noi preti dovremmo insegnare ai candidati (oggi purtroppo) anche a separarsi dal matrimonio senza odiarsi. E’ l’amore il fondamento di tutto, non il sacramento, entrato nel vocabolario e nella legislazione cattolica 15 secoli dopo il vangelo di Gesù.

“LE INVENZIONI” DI QUESTA MESSA
Altra sberla. Avrei inventato tutto. Nessun rispetto delle regole. Ora Lei m’insegna o dovrebbe aver studiato che le strutture portanti della messa, memoria della cena del Signore, sono 5: accoglienza dei presenti (che molti preti non si degnano di fare), celebrazione della parola, offerta del pane e del vino, consacrazione del pane e del vino, comunione o prendere il pane (purtroppo tralasciando il vino). In questo contesto, se l’occasione lo richiede, si può essere un po’ creativi e comunicativi per evitare che la gente resti sempre sul sacro incomprensibile, abra catabra. Il Suo latinorum parla di “Sacramenta propter homines”= “i sacramenti sono per gli uomini”, non di” homines propter sacramenta”. Cioè non sono gli uomini che devono subire i sacramenti e affibbiarseli senza nessuna spiegazione e comprensione. Ecco allora la lista delle mie “strampalate “varianti:

a) Prima della lettura del Vangelo ho spiegato che i tre segni di croce sulla fronte, sulle labbra, sul petto significano l’augurio a che Dio che ci accompagni e purifichi i nostri pensieri (fronte), le nostre parole (labbra), i nostri affetti (petto).

b) L’acqua versata nel calice: devozione introdotta da Carlo Magno che identificando Dio con il vino e l’uomo con l’acqua voleva significare che l’uomo cerca Dio e Dio cerca l’uomo. Indubbiamente una intuizione molto gratificante.

c) La consacrazione, l’ho fatta rivolgendomi verso la gente, dal momento che il Suo altare è inchiodato al muro. Le domando: Gesù quando ha fatto la cena ha girato la schiena ai presenti e ha parlato al muro? Inoltre alla frase: ”Gesù prese il pane lo diede ai suoi discepoli… prendete e mangiate” io ho aggiunto: ”lo diede ai suoi discepoli, lo diede a tutta la gente del mondo, lo diede a tutti noi qui riuniti quest’oggi…”. Che cosa avrebbe detto Gesù in quel momento agli sposi, ai testimoni, agli invitati nella nostra messa?

d) Dopo la mezza messa vi è la preghiera per il Papa. Ho preferito essere concreto. Giusto renderlo presente, i nemici del papa non sono quegli dell’Isis, ma come dice lui stesso “certi componenti della curia, del clero, dei cattolici fondamentalisti e visionari. Bergoglio rifugge dalla papolatria, e desidera che la gente preghi per lui per non meritarsi il rimprovero di Gesù: “Vai via da me, satana, tu non hai il mio spirito”. Protestante anticlericale il sottoscritto? Anche Gesù lo era se è finito in croce causa la combina dei sommi sacerdoti (il clero del tempo) e del potere politico congiunti.

e) A seguire c’è la preghiera per i defunti e mi sono permesso di fare memoria per i senza volto, i senza tomba, i profughi morti in mare, bambini e donne incinte. Per non limitarmi solo ai “propri cari morti con messe pagate”.

f) Alla Comunione ho spiegato che Dio è Amore e gli sposi in quel giorno dell’Amore avrebbero avuto il diritto di distribuirlo loro il pane. Oppure gli sposi sono abilitati solo a distribuir bomboniere? Gesù nell’ultima Cena non ha consacrato le mani ai presenti per distribuire il suo pane. Ho spiegato questa possibilità, ma non sono passato a farla eseguire, diversamente Lei mi sarebbe volato sull’altare a fare un quarantotto. E quindi la comunione l’ho distribuita io. Desolatamente a otto persone o poco più (su di una trentina): mi è sembrato essere in un ristorante in cui la gente anziché mangiare guarda gli altri che mangiano. Non voglio mettere a disagio costoro, ma inutile fuggire per la tangente dicendo che si può sostituire con la comunione “spirituale”. La gente si comporta come noi l’abbiamo educata. In ristorante non si va per fare un pranzo spirituale. E la messa è il banchetto del Signore celebrato con i suoi amici e per i suoi amici.

Queste le cinque invenzioni, che, anche se globalmente, Lei mi ha rinfacciato e a cui mi sento in dovere di rispondere. Certo non sono un tipo umile, ma Lei non ha il diritto di umiliare nessuno, stile preti padre padrone Continui pure con il culto dei suoi codicilli giuridici, quando Paolo dice che “la lettera uccide, lo spirito, vivifica.” (2° Cor.5-6), ma non dimentichi che anche per questo la gente in chiesa non ci viene più, perché nulla capisce e nulla riceve. Lei arrischia di limitarsi ai suoi 4 anziani (compreso il sagrista che continuava a masticare amaro) o alle solite devozioni o al turismo sacro. Gli anziani li teniamo blindati alle tradizioni perché li riteniamo ignoranti. Proibito capire, obbligati a ubbidire. Ma anche quelli ci scappano, in effetti anche loro ricominciano andare a scuola e all’università della terza età. Eventualmente se desidera un contributo a queste idee acquisti il mio libro “Interrogativi dell’esistenza umana” (pag.813, euro 18 a favore dei profughi) presso l’edicola Vassalli di Moriago (una delle più a Lei vicine, tel.0438-892.802).

AL PRANZO NEL RIFUGIO ALPINO COSTRUTTIVO SCAMBIO DI OPINIONI.
Verso sera, dopo il caffè, ho chiesto io stesso la possibilità di una pausa per uno scambio di pareri su questa messa di matrimonio, nella quale alcuni avevano chiaramente costatato un‘atmosfera di disagio, proveniente non dal sottoscritto ma da altrove. Non faccio 500 km (gratuitamente, rifiutando parcella di messa, pagandomi viaggio, vitto alloggio) per raccattare consensi. Mi piace seminare, e che il messaggio religioso passi alla gente. Questo è il vero salario. Iniziando con il grazie positivo della signora Dina, ucraina ortodossa, in perfetta lingua italiana indirizzatomi all’uscita della chiesa, per avere finalmente capito e “vissuto” una messa così, gli invitati si sono espressi favorevolmente. Gli stranieri che non avevano capito l’italiano apprezzarono lo stile e il modo di comunicare. Qualcuno aggiunse che è molto meglio una messa di un’ora in cui si parla e si dice concretamente, che non una messa di mezz’ora da cui non esce nulla e recitata pro forma. Altra considerazione: la radice dell’incomprensione e della resistenza, come si sa, risiede nell’idea di possedere la verità, di averne il monopolio. Da questo punto di vista tutto ciò che sta fuori non è semplicemente diverso, ma è il falso, il meno buono. Mi chiesero se io ero rimasto contento. Ovvio, molto, dal momento che per “loro” e per me questa esperienza è stata umanamente e spiritualmente un seme di speranza. E contento avrebbe dovuto essere rimasto anche il parroco del luogo. Con distinti saluti

Albino Michelin c.s., missionario in Svizzera.
Affoltern am Albis 28.07.2017

A BASSANO UN ALBERO DEL VIALE DEI MARTIRI DEDICATO A LUCA RUSSO?

Veneto in lutto. Commozione non solo della città del Grappa, ma di tutta una regione per la perdita di un figlio, falciato da un furgone killer dei terroristi Isis il 18 agosto mentre passeggiava con la fidanzata sul viale della Ramblas di Barcellona in Spagna. Tredici vittime, di cui due italiani, lui e Bruno Gullotta di Legnano, e il terzo residente all’estero. Luca Russo si trovava nella città catalana per un periodo di vacanza. Ovviamente sdegno per i gesto criminale e solidarietà per una giovane vita stroncata: 25 anni, fresco ingegnere, dedito pure al volontariato, solare, innamorato. Un vademecum di felicita ‘Quattro mila persone con fiaccole hanno sfilato la sera del 25 agosto, la salma è arrivata in città ricoperta dal tricolore, benedizione impartita dal vescovo, il giorno seguente cerimonia funebre celebrata dallo stesso prelato, con la partecipazione dei rappresentanti del governo e del Presidente della Repubblica. Sull’onda dell’emozione una proposta inoltrata al sindaco e ai media di dedicare un nuovo albero del Viale dei Martiri a questo concittadino è sotto esame. Ovvio che tutti ci sentiamo colpiti, perché poteva capitare a qualsiasi di noi. Solidali con il dolore della famiglia, un’opinione ci sia consentita. Vale a dire non trasformare un’escursione in un gesto eroico, in un martirio. Non vorrei deviare in una inutile digressione, ma collegarmi ad un confronto e ad un riferimento storico. Allorquando mi è capitato, quale missionario in Svizzera, di accompagnare in Italia la salma di qualche emigrato, schiacciato da una gru, da una frana, da un incidente sul lavoro ad un paesello della bergamasca o del bellunese, non ricordo nessuna bandiera, nessun vescovo, nessuna fiaccolata, nessuna autorità per quel povero essere umano partito dall’Italia con la morte nel cuore per un tozzo di pane, il viaggio della speranza senza ritorno e tutto per aiutare la sua famiglia. Non erano questi dei martiri? Degli eroi? Digressione per un dovuto postumo risarcimento. L’emozione non deve dimenticare i valori e i motivi che la sottendono. E veniamo al Viale dei Martiri di Bassano del Grappa. Il fatto si riferisce al 26 settembre 1944. Peccato che anche tanti laureandi attuali confondano la prima con la seconda guerra mondiale. In riferimento a questa proposta è da sapersi che il 20 settembre di quell’anno un’imponente forza di milizie nazifasciste hanno circondato il Montegrappa, e per un attacco ed un rastrellamento dai quattro punti cardinali, luogo dove sia erano ritirati per una scelta di vita, per sfuggire alla fucilazione e non per un’escursione, vacanziera, circa un migliaio di partigiani. Nei diversi scontri questi registrarono rilevanti perdite di vite umane. Oltre 170 giustiziati senza processo, altri arsi vivi, altri sepolti vivi e 31 condotti a Bassano per essere impiccati. Era il martedì 26 settembre 1944, ore 15. Io frequentavo la terza media presso l’istituto Scalabrini della città. Per un certo presentimento siamo saliti all’ultimo piano del Collegio e a mezzo km di distanza via aria nel così detto allora Viale delle fosse abbiamo visto arrivare dei camion, che lentamente procedendo, estraevano fuori e quindi lasciavano penzolare un partigiano, con un cappio al collo precedentemente attaccato ai rami degli alberi. A tale vista, tutti presi dal terrore, i superiori ci hanno fatto uscire dall’Istituto, e scappare fuori per le colline spaventati per tanto orrore. Al ritorno abbiamo visto dall’alto ad ogni albero un impiccato, oltraggiato e preso a calci dai militi fascisti, con al petto un cartello ”Bandito”. Il cappellano delle carceri, P. Odone Nicolini, passando la sera stessa da noi ci disse con voce affranta che gli era stato negato persino il consenso di dare ai condannati l’ultimo conforto, che a ciascuno era stato fatta un’iniezione per stordirlo come si fa con i topi, e che i poveri ragazzi, molti nemmeno, ventenni alla vista del nodo scorsoio chiamavano mamma. Solo qualche anno fa ebbi l’idea di incontrare certa Dolores Marin, residente a Cavaso del Tomba, allora partigiana diciottenne, cui avevano rasato i capelli per umiliazione e il cui moroso era stato fucilato, e avevo così potuto sentire da lei e annotare le sevizie, le torture, le deportazioni che i partigiani avevano dovuto subire. Sono ritornato anche il 5 giugno di quest’anno, ma ormai a 91 anni la Dolores non è più sostenuta dalla memoria. Fino a qui la rievocazione del Viale dei Martiri: per dare un’adeguata risposta alla proposta su menzionata. Tutto un altro mondo, sa di cattivo gusto e metterebbe a disagio lo stesso Luca. A ogni santo la sua nicchia. Da una breve e superficiale inchiesta fra italiani e veneti in Svizzera non si è trovato un favorevole, se non in forma soft. A qualcuno è scappato un secco: ”solito buonismo all’italiana, alla veneta, destinato fra breve a sgonfiarsi”. Se poi tutto questo, dalla bara in tricolore, alla benedizione del vescovo, alla fiaccolata, alla rappresentanza del Governo e della Repubblica ai funerali, all’affermazione del Governatore Veneto Zaia che vorrebbe mettere in ginocchio le moschee per obbligarle pubblicamente a condannare l’Isis, venisse usato come strategia per dargliela in testa agli islamici, ciò fa parte di un altro discorso che andrebbe risolto per le vie etiche, politiche dei controlli, delle integrazioni future delle civiltà, del rapporto fra religioni. Un lavoro a onda lunga. Se si crede opportuno, a Luca Russo si può sempre dedicare una strada, un adeguato famedio, una lapide murale al municipio…. Ma probabilmente Luca stesso, potesse parlarci, se esposto con foto in un nuovo albero di quel Viale dei Martiri si sentirebbe a disagio, un inquilino fuori posto. E forse vale la pena rispettarlo.

 Autore
Albino Michelin
02-09-2017

mercoledì 1 febbraio 2017

QUANDO LA LIBERTÀ FA PAURA

L’affermazione rimanda ad alcuni casi che mi permetto di citare. Un ex carcerato mi disse che lui avrebbe preferito restare in galera perché là aveva la vita assicurata. Pasto gratuito, nessuna bolletta della luce da pagare a fine mese, ogni giorno una passeggiata all’aria aperta dentro il recinto di detenzione, ogni pomeriggio un lavoretto a riempire le sue buste di pubblicità per una ditta e così si guadagnava qualche soldino. Una volta fuori dal carcere si è sentito un po’ perso perché doveva organizzarsi, cercarsi un lavoro, controllare le spese, ecc. In una parola paura della libertà. Un secondo caso di tutt’altro contesto: una signora, pia e praticante, mi dice che lei preferiva la messa in latino vecchia maniera, anche se non capiva niente, e la predica del prete del suo paese che ripeteva e le martellava in testa sempre le stesse cose ma lei aveva imparato a memoria e che la rassicurava tanto da sentirsi in pace con la sua coscienza. Anziché la messa in italiano con preti che ti confondono di nuove idee, ti mettono sottosopra le tue abitudini devozionali e mentali e ti costringono a pensare diversamente, nuova moda. Anche qui paura della libertà. Per non citare poi il terzo caso quello attinente a Papa Francesco, che sta annoverando sempre più contestazioni fra i cattolici dello zoccolo duro, che lo osteggiano per avere con la sua popolarità, la sua visione nuova e aperturista, la sua misericordia sparigliato tutto sino al punto che non si riesce più a capire dov’è la vera religione e quasi bisogna rifare il catechismo da capo: anche qui paura di riprogettarsi, paura della libertà. ll che significa, ribaltando il discorso, che molti preferiscono una “certa” schiavitù. Indubbiamente qui esuliamo dalla schiavitù di carattere sociale, quella massa umana per secoli riserva addetta al servizio dei capitribù, degli imperatori, dei signorotti, dei mecenati e dei colonizzatori abolita fra il 1795 e il 1866. Per contrapposto Intendiamo la libertà dal punto di vista psicologico o se vogliamo etico morale. E questa libertà è oggi una delle parole più usate e abusate. Vedi libertà di stampa, di manifestazione, di contestazione, di pensiero e via via. E pensare che la libertà è la facoltà più nobile, ciò che ci distingue e ci rende superiori agli animali come possibilità di autoriflessione e di autodeterminazione verso l’eroismo o di annullarci fino agli invertebrati. Ma è anche la parola più equivocata. Fa veramente paura perché aumenta il ventaglio delle scelte e scegliere è terribile, tanto che noi ignorando l’uso elementare della libertà abbiamo creato un mondo in cui tutte le scelte sono revocabili. Oggi ti sposo ma domani possiamo divorziare, ti ingravido ma nel caso possiamo abortire. Il terrore della libertà è tale che anche quando uno si espone ad una piccola scelta deve avere la garanzia che la scelta sia revocabile. La necessità di una porta laterale per uscirne. Quando la persona ha paura non è libera, e quando è libera ha paura. Lo scopo della vita è di essere liberi oppure di legarsi a qualcosa di più grande di noi che ci libererà veramente da noi stessi e dalle nostre angosce? Essere liberi non significa, come banalmente si è soliti pensare, fare ciò che piace e per di più farlo senza considerare in alcun modo le conseguenze delle nostre azioni. Significa essere capaci di assumersi le responsabilità che l’essere liberi comporta a cominciare da quelle di poter scegliere senza condizionamenti e la disponibilità ad affrontare rischi connessi dai quali sarebbe comodo sfuggire. Ed è per questo motivo che in realtà, contrariamente a quello che di solito si crede, molte persone hanno paura della libertà, a tal punto che spesso la rifiutano, preferendo seguire la via più facile, più rassicurante e comoda che porta a far scegliere gli altri, così da poter sempre presentare le loro decisioni, le loro azioni, come conseguenza di qualcos’altro, come l’imposizione di qualcun altro, mai come frutto di loro libere scelte. Far risalire all’esterno la responsabilità delle nostre azioni ecco che cosa si ricerca da parte di molti, quasi un bisogno di sottomissione, altro che la tanto invocata libertà personale. In molte occasioni si costata come quanto sia radicata l’abitudine di cercare sempre un appiglio al quale potersi aggrappare pur di non esporsi, pur di non dover decidere in proprio su cosa fare, su come agire quando ci si trova di fronte ad un problema. Oggi viviamo in una cultura di indecisi. La maggior parte della gente se potesse non deciderebbe mai e se proprio è costretta a scegliere, si garantisce che la scelta sia revocabile, che ci sia una via di uscita, e si lasci aperta la possibilità di smentire questa scelta. Certo niente è detto una volta per tutte perché la vita è dinamica. Ma il ventaglio di possibilità può diventare realtà solo quando lo si delimita facendo delle scelte precise che implicano la rinuncia ad altre alternative. E’ così che l’uomo traccia la sua storia personale. Siamo talmente gasati di conformismo che riteniamo questo mondo di confusi come l’unico possibile. Facciamo parte di una società così malata che coloro che vogliono reagire e guarire vengono definiti strani e i conformisti vengono chiamati sani.

Autore
Albino Michelin
01-02-2017

sabato 28 gennaio 2017

PERCHÉ MI SONO FATTO PRETE

E‘ una domanda che la gente fa spesso o vorrebbe fare ai preti un po’ perché li considera persone strane, in parte sospese fra cielo e terra, elette da Dio, privilegiate, inaccessibili, quando inavvicinabili, misogini, padroncini della coscienza della gente. Se ne sentono tante. Qui non mi interessa fare l’elenco di ciò che la gente pensa dei preti, quanto piuttosto dire di me stesso senza confrontarmi con nessuno. Era un sabato pomeriggio di metà settembre del 1942, non avevo ancora 10 anni, quindi diciamo nove, mi trovavo con sette ragazzi della mia età all’interno del campanile a suonare le campane dei “vespri”. Entra un prete, tonaca lunga e nera, cappello a tutto tondo, fascia attorno alla vita con inserito un crocefisso, che poi seppi appartenere all’Istituto Scalabrini di Bassano de Grappa, distante 50 km dal mio paese Sovizzo al Colle, con il compito di andare all’estero per assistenza agli italiani emigrati. Questi si chiamava Antonio Bocchese e senza tanti preamboli interruppe il concerto e chiese:” chi di voi vuole farsi prete?” Subito due di noi, io e Davide, ci presentiamo e all’istante ci arruoliamo. Mi condusse dal parroco ottantenne che abitava di fronte, un prete d’antico onesto stampo, il quale mi domandò perché mi volessi fare prete. Lo sapeva già, ma aveva l’abitudine di fare l’esame ai bambini e alla gente, e io risposi:” perché non voglio andare all’inferno.” Chi mi legge si metterà a ridere, ma rivela quanto quel prete avesse influito nella mia educazione e inciso anche negativamente nella mia età infantile. Senza con ciò metterlo sotto accusa, era figlio del suo tempo. Ma quel prete mi aveva letteralmente terrorizzato con la paura dell’inferno, dei castighi di Dio, del diavolo, con la confessione frequente: il tutto se volevo andare in paradiso. E nelle processioni sempre fra la schiera degli angioletti. Si sa che non tutti i bambini e in genere non tutti i caratteri degli umani sono uguali. Chi è più sensibile, chi più resistente, chi più indifferente. Ma in genere certi DNA dell’infanzia te li porti per tutta la vita: riuscirai a limitarne gli effetti, ma non ad annullarli. Soprattutto per un carattere ansioso e vitalista come il sottoscritto. Ovviamente ci stava anche una precedente educazione su tutta la linea. Chierichetto a sei anni andavo tutte le mattine a servire messa, confessione ogni settimana, prima comunione a sette anni, cresima a nove anni, il tutto con scrupolo e apprensione per non andare all’inferno. Aggiungi poi l’ambiente di contrada. Nelle sere d’inverno al filò nelle stalle si raccontava che lungo la strada verso la chiesa, dov’ era costruito un sacello della Madonna, di notte si vedevano fiamme e si sentivano lamenti delle anime del purgatorio, con il diavolo che brandiva la forca per punire i cattivi, grandi e piccini. Di conseguenza mia madre ogni mattina d’ inverno, con il buio o il chiarore della luna che ti lasciava intravedere ombre sinistre o con il ghiaccio mi doveva accompagnare pieno di paura sino al sacello e poi lei filava di corsa a casa e io di corsa verso la chiesa a servire la messa. Questa è la premessa d’obbligo per cui alla mia dichiarazione iniziale fatta al parroco non c’è proprio nulla da ridere. Nelle stesso pomeriggio il missionario vocazionista mi accompagnò a casa mia dove ci stava soltanto mia madre, e me la sono vista brutta. Fortuna volle che arrivò subito mio padre, terminato il turno all’acciaieria Beltrame di Vicenza. Mia madre attaccò: “questo vuole farsi prete. Invece deve stare a casa a lavorare. Vuole farsi prete perché non vuole zappare.” Poteva nascere una guerra di famiglia, se nonché mio padre s’interpose, disse che io avevo voglia di studiare, che ci riuscivo, e che a scuola ero fra i migliori, che sapevo il catechismo a memoria, e il missionario di fianco a fare da supporto, a sostenere la causa con volteggi di mano, sicché mia madre dovette cedere.
                                   Svegliai la contrada cantando “Lo spazzacamino”
 E così il 12 ottobre 1942, 550mo anniversario della scoperta dell’America sono partito al mattino presto per l’Istituto Scalabrini di Bassano. L’orologio batteva le cinque e io salutai i paesani svegliando la contrada e cantando lo spazzacamino. Sul palo della bicicletta di mio padre, con la valigia legata sul portapacchi, siamo saliti sul tramvai del paese vicino, a Vicenza abbiamo preso la “vacca mora”, un vecchio trenino con locomotiva a carbone che sbuffava ad ogni piccola salita sferragliando per prendere la rincorsa centinaia di metri prima. Eravamo io e il mi amico Davide, numero di matricola o di biancheria 490 lui ed il 491 io. Ci siamo trovati con una sessantina di nuovi compagni entrati: numero impensabile ai nostri giorni in cui i seminari sono totalmente deserti. Dovevo frequentare la quinta elementare e fino a natale ho seguito le rispettive materie, quindi mi spedirono o promossero in prima media, così in un anno mi sono fatto due classi. Forse troppo precoci non si matura a sufficienza. Le tante pressioni della prima infanzia non sono diminuite, anche perché l’educazione sia pure più soft si manteneva sulla stessa linea. Così la paura dell’inferno, dei castighi di Dio, dei sacrilegi, la confessione non diminuirono più di tanto. Anzi sentii il bisogno di aumentare la dose verso altre pratiche religiose: come la devozione dei primi nove venerdì del mese in onore del S.Cuore di Gesù e dei primi 5 sabati del mese in onore della Madonna, che con confessione e comunione garantivano paradiso assicurato e immediato subito dopo la morte. E ricominciavo sempre da capo per tema di averne dimenticato qualcuno. Nei 14 anni di seminario non sono mancati anche fatti di vita che mi hanno profondamente segnato. Come il 26 settembre 1944 allorché dai piani superiori del collegio abbiamo assistito all’impiccagione di 39 partigiani rastrellati dai nazifascisti sul Monte Grappa o come i due giorni del 24-25 aprile 1945 nei quali i superiori ci spedirono in famiglia causa i bombardamenti sul ponte di Bassano. Io con il paesano Davide ed altri due, Gabriele e Fiorindo che nel frattempo erano entrati in seminario, con i nostri familiari che ci erano venuti a prendere abbiamo vagato 50 km. per le campagne attraversando il fronte, incontrando bande armate che ci hanno depredati di bicilette e di ogni mezzo e nei quali la nostra vita fu in serio pericolo di fucilazione. Frattanto nel corso degli studi era sorta in me anche una grande passione per la musica e per le lettere e storia, ad eccezione di un’antipatia viscerale per la matematica. Nel 1956 pochi mesi prima dell’ordinazione sacerdotale, i superiori, come da prassi ci chiesero di esprimere per iscritto il desiderio dell’impegno che avremmo preferito espletare una volta missionari. I miei compagni proclamarono di essere pronti a fare l’ubbidienza, io invece ho espresso il mio desiderio senza fronzoli: acquisire il diploma in pianoforte, dal momento che ero arrivato all’ottavo corso su dieci richiesti e nelle stesso tempo ottenere la laurea in lettere. Non tardò la risposta: ”carissimo, ricordati che la sapienza di questo mondo è stoltezza presso Dio, perciò prendi la valigia e vai in Svizzera a salvare l’emigrato.” Cosi il 12 luglio 1956 alle 8 del mattino partii in treno da Piacenza e alle 20 arrivai a Berna in Svizzera, ma durante il viaggio per me fu tutto un pianto perché avevo dovuto rinunciare a due passioni importanti. Ma si sa, nella vita chi vuole la nuora deve prendersi anche la suocera, e chi vuole il più deve prendersi anche il meno.
        A che serve il mondo senza la vita e a che serve la vita se non per essere donata?
 E io in verità desideravo fare il missionario, lo sentivo come realizzazione personale, difatti avevo scritto nell’immaginetta della prima messa:” a che serve il mondo senza la vita e anche serve la vita se non per essere donata?”. Soltanto che all’estero ci volevo arrivare qualche anno più tardi, con una bagaglio di preparazione musicale e culturale, al di là della teologia di dovere. Nei primi anni di sacerdozio affioravano ancora i sentimenti dell’origine: la paura dell’inferno, di Dio, della morte, dei castighi eterni. E la botte da’ il vino che ha. Così ricordo che la prima predica del 2 novembre 1956 giorno dei defunti, chiesa strapiena, diceva così:” Io non so se ti verrà il gozzo oppure la gobba, non so se ti sposerai o resterai scapolo o zitella, non so se avrai dei figli oppure un cancro, non so se i tuoi figli entreranno in seminario o finiranno in galera, so soltanto una cosa: che tu morirai.” Sgomento ovviamente fra gli ascoltatori, tutti giovani ragazzi e ragazze del Veneto e nord Italia. Cose che mi fecero pensare e riciclare. Finché verso i quarant’anni, nel mezzo del cammin di nostra vita, volli rivedere tutto con istituzioni e persone di provata fiducia. Frequentai 5 anni l’università di Friburgo per approfondire teologia, psicologia, etica e quant’altro. Mi cercai un vero amico, un domenicano di cultura e pure uomo di Dio, con il quale mi confidai a lungo, e mi portò lui stesso a questa conclusione:” lascia perdere quel Dio che ti hanno consegnato da bambino. Dio è amore, e tu hai avuto e continui ad avere di lui troppa paura. Anche se tu non credessi in Dio, sappi che Dio crede in te. Lascia stare l’inferno e i suoi diavoli. Meno confessione e più confidenza in Dio. Con i bambini non parlare mai del Dio giudice, ma educarli a lui attraverso il senso della bellezza, dell’arte, del gioco, dell’amicizia. Non fare impazzire te stesso e gli altri.” Questo incontro e questo periodo mi è stato benefico. Nessuna conversione con cartelloni pubblicitari, solo un’inversione di tendenza. E’ proprio vero che chi trova un amico trova un tesoro. Non mi sono sposato, e nemmeno ho sentito il bisogno di sposarmi, anche se mi sono sempre battuto e mi batto per un libero celibato dei preti. Il motivo risiede nel fatto che la mia carica interiore si è quasi per natura riversata e investita verso altri obiettivi: l’attenzione al prossimo dal punto di vista religioso, culturale, assistenziale, aggregativo, comunitario. A parte il fatto che se io mi fosse sposato, avrei fatto impazzire la moglie, dato il carattere alquanto estroverso fantasioso. Si dirà: un tipo mica tanto normale. Ma io mi domando: e chi è del tutto normale in questo mondo? E dove sta di casa la normalità?

Autore
Albino Michelin
01-01-2017