sabato 28 gennaio 2017

PERCHÉ MI SONO FATTO PRETE

E‘ una domanda che la gente fa spesso o vorrebbe fare ai preti un po’ perché li considera persone strane, in parte sospese fra cielo e terra, elette da Dio, privilegiate, inaccessibili, quando inavvicinabili, misogini, padroncini della coscienza della gente. Se ne sentono tante. Qui non mi interessa fare l’elenco di ciò che la gente pensa dei preti, quanto piuttosto dire di me stesso senza confrontarmi con nessuno. Era un sabato pomeriggio di metà settembre del 1942, non avevo ancora 10 anni, quindi diciamo nove, mi trovavo con sette ragazzi della mia età all’interno del campanile a suonare le campane dei “vespri”. Entra un prete, tonaca lunga e nera, cappello a tutto tondo, fascia attorno alla vita con inserito un crocefisso, che poi seppi appartenere all’Istituto Scalabrini di Bassano de Grappa, distante 50 km dal mio paese Sovizzo al Colle, con il compito di andare all’estero per assistenza agli italiani emigrati. Questi si chiamava Antonio Bocchese e senza tanti preamboli interruppe il concerto e chiese:” chi di voi vuole farsi prete?” Subito due di noi, io e Davide, ci presentiamo e all’istante ci arruoliamo. Mi condusse dal parroco ottantenne che abitava di fronte, un prete d’antico onesto stampo, il quale mi domandò perché mi volessi fare prete. Lo sapeva già, ma aveva l’abitudine di fare l’esame ai bambini e alla gente, e io risposi:” perché non voglio andare all’inferno.” Chi mi legge si metterà a ridere, ma rivela quanto quel prete avesse influito nella mia educazione e inciso anche negativamente nella mia età infantile. Senza con ciò metterlo sotto accusa, era figlio del suo tempo. Ma quel prete mi aveva letteralmente terrorizzato con la paura dell’inferno, dei castighi di Dio, del diavolo, con la confessione frequente: il tutto se volevo andare in paradiso. E nelle processioni sempre fra la schiera degli angioletti. Si sa che non tutti i bambini e in genere non tutti i caratteri degli umani sono uguali. Chi è più sensibile, chi più resistente, chi più indifferente. Ma in genere certi DNA dell’infanzia te li porti per tutta la vita: riuscirai a limitarne gli effetti, ma non ad annullarli. Soprattutto per un carattere ansioso e vitalista come il sottoscritto. Ovviamente ci stava anche una precedente educazione su tutta la linea. Chierichetto a sei anni andavo tutte le mattine a servire messa, confessione ogni settimana, prima comunione a sette anni, cresima a nove anni, il tutto con scrupolo e apprensione per non andare all’inferno. Aggiungi poi l’ambiente di contrada. Nelle sere d’inverno al filò nelle stalle si raccontava che lungo la strada verso la chiesa, dov’ era costruito un sacello della Madonna, di notte si vedevano fiamme e si sentivano lamenti delle anime del purgatorio, con il diavolo che brandiva la forca per punire i cattivi, grandi e piccini. Di conseguenza mia madre ogni mattina d’ inverno, con il buio o il chiarore della luna che ti lasciava intravedere ombre sinistre o con il ghiaccio mi doveva accompagnare pieno di paura sino al sacello e poi lei filava di corsa a casa e io di corsa verso la chiesa a servire la messa. Questa è la premessa d’obbligo per cui alla mia dichiarazione iniziale fatta al parroco non c’è proprio nulla da ridere. Nelle stesso pomeriggio il missionario vocazionista mi accompagnò a casa mia dove ci stava soltanto mia madre, e me la sono vista brutta. Fortuna volle che arrivò subito mio padre, terminato il turno all’acciaieria Beltrame di Vicenza. Mia madre attaccò: “questo vuole farsi prete. Invece deve stare a casa a lavorare. Vuole farsi prete perché non vuole zappare.” Poteva nascere una guerra di famiglia, se nonché mio padre s’interpose, disse che io avevo voglia di studiare, che ci riuscivo, e che a scuola ero fra i migliori, che sapevo il catechismo a memoria, e il missionario di fianco a fare da supporto, a sostenere la causa con volteggi di mano, sicché mia madre dovette cedere.
                                   Svegliai la contrada cantando “Lo spazzacamino”
 E così il 12 ottobre 1942, 550mo anniversario della scoperta dell’America sono partito al mattino presto per l’Istituto Scalabrini di Bassano. L’orologio batteva le cinque e io salutai i paesani svegliando la contrada e cantando lo spazzacamino. Sul palo della bicicletta di mio padre, con la valigia legata sul portapacchi, siamo saliti sul tramvai del paese vicino, a Vicenza abbiamo preso la “vacca mora”, un vecchio trenino con locomotiva a carbone che sbuffava ad ogni piccola salita sferragliando per prendere la rincorsa centinaia di metri prima. Eravamo io e il mi amico Davide, numero di matricola o di biancheria 490 lui ed il 491 io. Ci siamo trovati con una sessantina di nuovi compagni entrati: numero impensabile ai nostri giorni in cui i seminari sono totalmente deserti. Dovevo frequentare la quinta elementare e fino a natale ho seguito le rispettive materie, quindi mi spedirono o promossero in prima media, così in un anno mi sono fatto due classi. Forse troppo precoci non si matura a sufficienza. Le tante pressioni della prima infanzia non sono diminuite, anche perché l’educazione sia pure più soft si manteneva sulla stessa linea. Così la paura dell’inferno, dei castighi di Dio, dei sacrilegi, la confessione non diminuirono più di tanto. Anzi sentii il bisogno di aumentare la dose verso altre pratiche religiose: come la devozione dei primi nove venerdì del mese in onore del S.Cuore di Gesù e dei primi 5 sabati del mese in onore della Madonna, che con confessione e comunione garantivano paradiso assicurato e immediato subito dopo la morte. E ricominciavo sempre da capo per tema di averne dimenticato qualcuno. Nei 14 anni di seminario non sono mancati anche fatti di vita che mi hanno profondamente segnato. Come il 26 settembre 1944 allorché dai piani superiori del collegio abbiamo assistito all’impiccagione di 39 partigiani rastrellati dai nazifascisti sul Monte Grappa o come i due giorni del 24-25 aprile 1945 nei quali i superiori ci spedirono in famiglia causa i bombardamenti sul ponte di Bassano. Io con il paesano Davide ed altri due, Gabriele e Fiorindo che nel frattempo erano entrati in seminario, con i nostri familiari che ci erano venuti a prendere abbiamo vagato 50 km. per le campagne attraversando il fronte, incontrando bande armate che ci hanno depredati di bicilette e di ogni mezzo e nei quali la nostra vita fu in serio pericolo di fucilazione. Frattanto nel corso degli studi era sorta in me anche una grande passione per la musica e per le lettere e storia, ad eccezione di un’antipatia viscerale per la matematica. Nel 1956 pochi mesi prima dell’ordinazione sacerdotale, i superiori, come da prassi ci chiesero di esprimere per iscritto il desiderio dell’impegno che avremmo preferito espletare una volta missionari. I miei compagni proclamarono di essere pronti a fare l’ubbidienza, io invece ho espresso il mio desiderio senza fronzoli: acquisire il diploma in pianoforte, dal momento che ero arrivato all’ottavo corso su dieci richiesti e nelle stesso tempo ottenere la laurea in lettere. Non tardò la risposta: ”carissimo, ricordati che la sapienza di questo mondo è stoltezza presso Dio, perciò prendi la valigia e vai in Svizzera a salvare l’emigrato.” Cosi il 12 luglio 1956 alle 8 del mattino partii in treno da Piacenza e alle 20 arrivai a Berna in Svizzera, ma durante il viaggio per me fu tutto un pianto perché avevo dovuto rinunciare a due passioni importanti. Ma si sa, nella vita chi vuole la nuora deve prendersi anche la suocera, e chi vuole il più deve prendersi anche il meno.
        A che serve il mondo senza la vita e a che serve la vita se non per essere donata?
 E io in verità desideravo fare il missionario, lo sentivo come realizzazione personale, difatti avevo scritto nell’immaginetta della prima messa:” a che serve il mondo senza la vita e anche serve la vita se non per essere donata?”. Soltanto che all’estero ci volevo arrivare qualche anno più tardi, con una bagaglio di preparazione musicale e culturale, al di là della teologia di dovere. Nei primi anni di sacerdozio affioravano ancora i sentimenti dell’origine: la paura dell’inferno, di Dio, della morte, dei castighi eterni. E la botte da’ il vino che ha. Così ricordo che la prima predica del 2 novembre 1956 giorno dei defunti, chiesa strapiena, diceva così:” Io non so se ti verrà il gozzo oppure la gobba, non so se ti sposerai o resterai scapolo o zitella, non so se avrai dei figli oppure un cancro, non so se i tuoi figli entreranno in seminario o finiranno in galera, so soltanto una cosa: che tu morirai.” Sgomento ovviamente fra gli ascoltatori, tutti giovani ragazzi e ragazze del Veneto e nord Italia. Cose che mi fecero pensare e riciclare. Finché verso i quarant’anni, nel mezzo del cammin di nostra vita, volli rivedere tutto con istituzioni e persone di provata fiducia. Frequentai 5 anni l’università di Friburgo per approfondire teologia, psicologia, etica e quant’altro. Mi cercai un vero amico, un domenicano di cultura e pure uomo di Dio, con il quale mi confidai a lungo, e mi portò lui stesso a questa conclusione:” lascia perdere quel Dio che ti hanno consegnato da bambino. Dio è amore, e tu hai avuto e continui ad avere di lui troppa paura. Anche se tu non credessi in Dio, sappi che Dio crede in te. Lascia stare l’inferno e i suoi diavoli. Meno confessione e più confidenza in Dio. Con i bambini non parlare mai del Dio giudice, ma educarli a lui attraverso il senso della bellezza, dell’arte, del gioco, dell’amicizia. Non fare impazzire te stesso e gli altri.” Questo incontro e questo periodo mi è stato benefico. Nessuna conversione con cartelloni pubblicitari, solo un’inversione di tendenza. E’ proprio vero che chi trova un amico trova un tesoro. Non mi sono sposato, e nemmeno ho sentito il bisogno di sposarmi, anche se mi sono sempre battuto e mi batto per un libero celibato dei preti. Il motivo risiede nel fatto che la mia carica interiore si è quasi per natura riversata e investita verso altri obiettivi: l’attenzione al prossimo dal punto di vista religioso, culturale, assistenziale, aggregativo, comunitario. A parte il fatto che se io mi fosse sposato, avrei fatto impazzire la moglie, dato il carattere alquanto estroverso fantasioso. Si dirà: un tipo mica tanto normale. Ma io mi domando: e chi è del tutto normale in questo mondo? E dove sta di casa la normalità?

Autore
Albino Michelin
01-01-2017