sabato 27 ottobre 2018

PROFESSIONE COME VOCAZIONE

Il caso di Erika divenuta Suor Caterina di Gesù non è né unico, né raro. Una ragazza moderna, ex giocatrice di pallavolo, laureata in medicina, amante delle compagnie giovanili e delle escursioni, per due anni in Africa con attività di chirurgo, fidanzata con un ragazzo della stessa professione, improvvisamente, o così può sembrare, rivela in famiglia di essere stata toccata dalla chiamata di Dio, di essere serena solo quando incontra Gesù, al ragazzo confessa di non poterlo rendere felice, insomma dal detto al fatto a 44 anni entra in clausura presso le monache “Benedettine murate” in una città del nord Italia. Fatto recente che si presta alle più svariate considerazioni. ”Ma che cosa ci guadagna a rinchiudersi in convento, con tutto il bene che c’è da fare in questo mondo, con la sua passione per l’Africa così carente di cure e di assistenza, che bisogno ha Gesù di una sepolta viva in adorazione perpetua davanti al suo tabernacolo”. Opportune qui alcune riflessioni sulle vocazioni maschili e femminili, sulla missione degli esseri umani, sulle varie professioni, sulle preferenze ed elezioni da parte di Dio, di fronte al quale invece tutti siamo uguali e alla stessa griglia di partenza. Nel senso che tutti siamo chiamati da Lui sia pure con doni diversi. Troppa carne al fuoco che si può semplificare riducendo all’essenziale. Premessa importante è che una persona si senta gratificata di stare sulla terra. Per gratificata non intendiamo felice, fortunata, grondante denaro e successo. Erika non è una egoista, una misantropa, una scansafatiche, una rifiutata né una prediletta da Dio, ma una che si sente realizzata solo dando spazio alla propria interiorità. Dio non ha bisogno di lei, o di toglierla dal mondo, è lei che ha bisogno di Dio attraverso questo tipo di scelta: il ritiro in convento. Non si vuole qui deprezzare la vocazione intesa nel senso tradizionale come la chiamata di Dio al suo servizio. Diremmo solo che è riduttivo sacralizzare l’affermazione. Indubbiamente nella bibbia, nelle religioni, nelle vite dei santi si parla spesso di “voce” di Dio, ad un singolo o ad un popolo. Così Abramo per voce di Dio parte dalla sua terra ed emigra, Samuele nel sonno viene svegliato dalla voce di Dio per diventare profeta in Israele, Giuseppe nel sogno sente attraverso l’angelo la voce di Dio di prendere Maria come sua sposa, tante donne sentono la voce di Dio che il bimbo nel loro grembo sarà destinato a grandi prodigi, Luigi Gonzaga e Domenico Savio da giovinetti sentono la voce di Dio a diventare santi. Non facciamo qui del psicologismo, indubbiamente può trattarsi di ispirazioni, di improvvise decisioni, di illuminazioni interiori, di allucinazioni, originate da situazioni casuali, incontri, pressioni ambientali, disgrazie, successi, insuccessi. Se Dio c’è, come è nella fede di molti, può servirsi di tutte le più svariate forme, anche delle più quotidiane e naturali. Tralasciamo qui il caso specifico impellente ai nostri giorni, delle vocazioni al sacerdozio: una caduta a picco. E’ un aspetto parziale e settoriale della vocazione universale di ogni uomo, che non è chiamato a farsi prete ma ad esercitare una professione, nessuna superiore o inferiore all’altra, ma solo diversa. Qui ci può entrare benissimo il discorso sul rapporto vocazione professione. In tedesco per le due viene usata un unico vocabolo con la stessa radice: ”Beruf”. Nel gergo comune vocazione richiama l’immagine di chi si consacra alla vita religiosa per l’eternità, il dedicarsi interamente a Dio o al prossimo. Professione invece richiama competenza, produttività, riconoscimento sociale, condizionata da fatti esterni alla persona e con scadenza a termine. Ma si può partire anche da una domanda volutamente provocatoria: al di là del prete, nel caso un medico, un infermiere, uno psicoterapeuta si sente dedicato ad una professione o ad una vocazione? A rifletterci oggi la maggioranza tende a rispondere: una vocazione. E sarebbe opportuno approfondire i termini perché ne guadagnerebbe il mondo se la vocazione venisse vissuta come professione, cioè con competenza. E se la professione come una vocazione, cioè con un’adesione profonda, una messa a disposizione del nostro potenziale interiore nascosto, capace di indirizzare le nostre migliori energie a quel lavoro. E’ quanto intendeva Calvino (+1556) quando sosteneva che ogni professione è vocazione. Che poi l’intuizione l’abbia portato un po’ troppo lontano, a sostenere che il lavoro rende lode a Dio, e che ogni arricchimento proveniente dal lavoro è segno della benedizione di Dio, facendosi passare protestante antesignano del capitalismo. Queste sono esagerazioni possibili: da un principio esatto, applicazioni esagerate. Però non andrebbe smarrita l’idea di fondo, che cioè bisognerebbe riuscire a laicizzare di più la vocazione, e spiritualizzare di più la professione. Facendo attenzione alla vocazione che dovrebbe precedere ogni professione e costituirne il fondamento, che non è conseguibile attraverso un diploma, ma attraverso l’ascolto di ciò che sgorga dal nostro maestro interiore. Però non voliamo troppo alto. In pratica quando è possibile che la professione sia vissuta come vocazione allorché abbiamo un’infinità di precari, di disoccupati, di gente che deve accontentarsi di un lavoro qualsiasi lontano dalle loro aspirazioni e capacità? O d’altra parte, quando abbiamo centinaia di scansafatiche, che una professione non la vogliono e si fanno passare come disabili, e vivono sulle spalle altrui sfruttando il lavoro e i sacrifici del prossimo? Sull’argomento ampliamo la visione: Dio ha creato il mondo, ma l’ha lasciato incompleto. All’uomo il compito di completarlo attraverso le più svariate vocazioni e professioni: dal chiostro come la Erika, dove si produce e si comunica a noi, attraverso la preghiera, energia spirituale. Dal sacerdozio con preti e missionari da Gesù desiderati quali “pescatori di uomini” per alimentare in noi il rapporto con il Trascendente. Dalle professioni umanitarie per garantirci una serenità di vita, a quelle specificatamente tecniche e produttive per acquisire maggiore dignità e giustizia sociale. Vocazione o professione? Nessuna differenza, basta fare tutto con passione.

Autore
Albino Michelin
31.09.2018

venerdì 26 ottobre 2018

MA NOI QUANTI ANNI ABBIAMO?

Molti di noi restano confusi quando sentono parlare del tempo della creazione del mondo raccontato dalla Bibbia e quello del suo inizio insegnato a scuola e dalla scienza. Per chiarezza ripartiamo dal testo della Bibbia, genesi capitolo primo. Dio avrebbe creato il primo giorno la luce, il secondo giorno il firmamento, il terzo giorno la terra e le acque, il quarto giorno la luce e le stelle, il quinto giorno i pesci e gli uccelli, il sesto giorno l’uomo Adamo col fango della terra, la donna Eva traendola della costola di Adamo. Il due disubbidirono al divieto di Dio di mangiare il frutto proibito, la mela, e furono cacciati dal paradiso terrestre, tirandosi dietro castighi, sofferenze, morte per tutti i loro discendenti (Episodio chiamato peccato originale, cioè delle origini). Nel medioevo si datava persino l’età di questo evento, 5 mila anni. In effetti anche nelle scuole superiori di teologia di 50-60 anni fa così si imparava, finché la scienza moderna Hubble, Einstein, ecc. datarono l’inizio del cosmo a 13-14 miliardi anni fa. Per esplosione di energia da un punto come capocchia di spillo. Non dilunghiamoci sui dettagli: da energia, massa gassosa, galassie, pianeti, oceani, vegetazione, pesci, ominidi, homo faber, homo sapiens attuale. Qualcuno con ironia afferma che oggi si va verso l’homo insipiens. A grandi linee la vita sarebbe comparsa 4 miliardi di anni fa, l’uomo 3 milioni di anni fa, come dimostrerebbe un primo scheletro appartenente ad una donna, nostra nonna Lucy in Etiopia. Come dire che noi siamo discendenti di africani. Comunque veniamo da molto lontano e siamo orgogliosi di conoscere le nostre origini. Viviamo nel pianeta terra con un raggio di appena 6 mila km. che ruota attorno ad una banale stella di seconda generazione, situata fra altri cento miliardi di stelle. Siamo composti di 25 elementi, ma soprattutto di ossigeno, carbonio, idrogeno, azoto, calcio, zolfo, fosforo. Il valore dei miei atomi non va oltre i 15 euro. La mia interiorità si ribella all’idea che io sia un essere superfluo senza alcun significato. La scienza oggi è più consapevole dei suoi limiti. Cerca di spiegare come funzionano le cose, ma non ha la capacità di dare loro un senso. La religione può dare un senso ma non è in grado di analizzare come avvengono i fatti. Guardando le cose a ritroso, tutto il lungo cammino pare tendere verso l’essere umano, sino all’apparire della coscienza, come se l’universo desiderasse la comparsa dell’umano. Cosi scienziati come Teilhard de Chardin e Barrow. Caratteristica del processo evolutivo è la relazione esistente fra il tutto. Nessuna specie è autosufficiente, tutto è interdipendente. Esseri viventi, oceani, natura, suolo, temperatura. Complessità e mistero. Dalla rivoluzione agraria, a quella industriale, a quella cibernetica, a quella ecologica. Dialogo fra cielo e terra. Solo un essere intelligente superiore può aver tratto questo mistero dal nulla, perché dal nulla spontaneamente non nasce nulla. Che tutto sia avvenuto per caso, che il “Big Bang” formi un universo ordinato, la probabilità è stata stimata di 1 su 10123, come per caso potrebbe comporsi la Divina Commedia estraendo lettere alfabetiche da un contenitore. In noi c’è la registrazione di una storia molto lunga. Gli atomi che mi costituiscono esistono infatti da milioni di anni avendo fatto parte di essere sia animati che inanimati. Prima sono stati presenti chissà nelle montagne, negli invertebrati, nei colibrì, negli uccelli, pesci e anche in altri uomini preantenati. Catena umana, catena cosmica. Ora costituiscono l’originalità che sono io. Per questo mi sento in comunione con tutta la natura. Un giorno le mie cellule si scomporranno, i nostri atomi passeranno a far parte di un’altra realtà della terra, torneranno alla terra senza che per questo il mio spirito segua necessariamente lo tesso destino. E qui resta aperto un discorso. La mia corteccia cerebrale è capace di pensiero astratto, cioè di autoriflessione. Capace di percepire in qualche modo la presenza divina nel cosmo. Come indica la scoperta dei lobi frontali, battezzata non dai preti, ma dagli scienziati come “Punto Dio” che si attiva e si alimenta in occasione di una esperienza spirituale, dagli stessi chiamata mente mistica. Non solo dal credente L. Boff ma anche da tanti atei e agnostici privi di pregiudizi. Come se l’universo si fosse evoluto in miliardi di anni fino a produrre nel cervello umano lo strumento attraverso il quale è possibile captare la presenza di Dio che c’era da sempre, ma che non era percepibile in mancanza di coscienza adeguata. E considerando l’attuale nostro cervello con i suoi 100 miliardi neuroni e 500 mila miliardi di sinapsi nulla vieta di pensare (J. Arregi) che le sue prestazioni possano essere incrementate sino all’infinito. Cervello più complesso, intelligente, potenza della evoluzione. Così dobbiamo parlare di una cosmogenesi, di un mondo che si ricrea, si rifà, rinasce, al di là di tutti i cataclismi e apocalissi profetizzate da maghi e veggenti di oggi. Da quanto detto non è vero che noi veniamo dal nulla, quando veniamo concepiti portiamo nel nostro DNA la sintesi e il riassunto di un passato millenario non solo cosmico ma anche umano. E allorché si parla di peccato originale (vedi inizio presente articolo), va interpretato in modo simbolico (da non intendere leggendario), cioè che ognuno di noi si porta dietro un passato umano con pregi e difetti, che lo arricchisce o che lo appesantisce. Di qui in ognuno di noi l’istinto di progredire e scoprire (=positivo), ma anche quello di valicare i confini del suo attualmente concesso e possibile (=negativo). In quanto poi alla creazione secondo i sei giorni della bibbia, anche questo un simbolo, non va preso alla lettera come un verbale: significa che il mondo al di là delle modalità di creazione è frutto di una intelligenza e di un amore verso il cosmo e verso l’umanità. Questo il senso profondo del versetto “lo spirito di Dio aleggiava sopra le acque” Considerazioni queste non tanto peregrine, ma frutto di una riflessione sull’enciclica di Papa Francesco” Laudato sii o mi Signore” (24.5.2015). Lodare Dio nel caso non è una umiliazione, ma un sentimento di compartecipazione con lui, con il creato, con l’umanità tutta. Allora quanti anni abbiamo? Attualmente 14 miliardi più’ quelli anagrafici del nostro compleanno. Date queste premesse ci auguriamo un promettente futuro.

Autore
Albino Michelin
26.09.2018

mercoledì 24 ottobre 2018

QUANDO LA CHIESA PRATICAVA LA PENA DI MORTE

Come spesso accade molte dialettiche e contrapposizioni accadono allorché Papa Bergoglio senza tante sedie gestatorie, concistori, ex cattedre dell’infallibilità, pubblica un documento come quello del 2 agosto 18 in cui abolisce l’articolo 2267 del Catechismo che permetteva sia pure in casi eccezionali la pena di morte, per quanto questa sia stata esercitata nella chiesa da quasi due mila anni. Non meraviglia che tale decisione sia presa da un Papa Francesco sapendo che quasi tutta la sua preoccupazione evangelico-pastorale verte sulla salvaguardia della dignità e dei diritti della persona umana. Va premesso un breve excursus storico della pena di morte praticata dalla chiesa dalle origini, non tanto per la soddisfazione di metterla sotto processo, cose che tutti conoscono magari travisando oltre misura, quanto piuttosto per evidenziare le motivazioni. E si vedrà che più importante del comportamento del tempo è il processo storico evolutivo che vi sottostà. Sappiamo che Mosè alcuni secoli prima di Gesù aveva compilato i dieci comandamenti, il quinto dei quali dice di “non ammazzare”. Gesù non lo abolisce, anzi lo completa aggiungendo che chi dice al suo fratello” stupido” sarà sottoposto al sinedrio (Mt 5,22). Non occorre qui fare la lista delle legislazioni in materia presso gli antichi egizi, persiani, orientali, greci, romani. Saltiamo a piè pari al 313 d.C. quando la chiesa eredita da Costantino tutti i poteri politici e privilegi dell’impero romano. Pro dolor la chiesa da perseguitata diventa persecutrice. In effetti con l’editto di Tessalonica nel 385 il cattolico Teodosio dichiara:” che il cristianesimo è religione di stato. Chi non vi aderisce o è un mentecatto o è miscredente e oltre che con la giustizia divina dovrà fare i conti con la giustizia umana”. Leggi: pena di morte. Qualche anno dopo, nel 415 la cristiana Ippazia venne lapidata dai suoi correligionari perché donna erudita in matematica, in fisica, in filosofia. Cioè quando alla donna non era consentita la cultura dei maschi. E nel 1179 Papa Alessandro III ingiunge ai fedeli di prendere le armi contro gli eretici, confiscare i loro beni, renderli schiavi, mandarli al patibolo. Saltiamo anche le guerre di religione e l’inquisizione per approdare al 1600 quando Giordano Bruno venne bruciato con sentenza di San Roberto Bellarmino, in quanto sosteneva la possibilità di vita in altri pianeti. E Galileo che alla stessa fine ci scappò per un pelo se non avesse abiurato alla giusta tesi che la terra gira attorno al sole. Saltiamo a Pio IX, il papa Re, ultimo baluardo dello Stato Pontificio. Alle sue dipendenze, certo Mastro Titta, Gian Battista Bugatti, il boia più famoso della chiesa, si occupò di 560 esecuzioni. Gli ultimi due ghigliottinati furono i patrioti Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti, 24 ottobre 1868, cui il pontefice, invano supplicato, non concesse la grazia. I metodi erano stati i più svariati: impiccagione, decapitazione, annegamento, lapidazione, lancio dal dirupo, crocifissione, sbranamento, sotterramento, bollitura, fame, sete, smembramento, tortura, martellata in testa. In genere si sbatteva il crocefisso sulla bocca al condannato per indurlo al pentimento estremo. Il vaticano abolì la pena di morte di fatto nel 1969 con Paolo VI e di diritto nel 2001 quando la Repubblica italiana l’aveva già abolita nel 1948. E venne il 2 agosto 2018 in cui, come detto, Bergoglio tolse anche il comma dal recente catechismo impegnandosi per l’abolizione in tutto il mondo. Oggi gli Stati del mondo sono 206, e la pena di morte vige in 58, del quali 37 in Usa. La resistenza dei cattolici si basa sul fatto che dottrina e tradizione in questo campo furono per secoli indiscussi. Persino S. Tommaso nel 1250 la sosteneva:” come un membro malato si può tagliare per salvare tutto il corpo, così una persona che attenta al bene comune, e diventa strumento di corruzione, va eliminata”. Sulla stessa linea il Concilio di Trento 1560 e il catechismo di Pio X del 1905. Sostengono i conservatori che allora la sacralità della vita non è più assoluta, che nella teologia si apre una breccia, ci si mette su un piano inclinato nei confronti di una eventuale liceità dell’aborto e del testamento biologico o suicidio assistito. Un tempo si blindavano le dottrine della chiesa con il logo: ”De fide, de fide divina, de fide catholica, de fide definita, de fide tenenda, de fide definienda”, ora salta tutto? Può sembrare strano, ma è assodato che la resistenza più dura provenga dai vescovi degli Stati Uniti. Il teologo fondamentalista Roberto De Mattei invita i cristiani a reagire contro questo nuova dottrina, cioè nuova eresia di Bergoglio. A tanta problematica si può rispondere: la costante ribadita da Gesù resta il rispetto della persona, le variabili e le modalità cambiano. Un tempo si dava più importanza alle verità che non alla persona, oggi si registra che a problemi nuovi vanno date risposte diverse. Dal punto di vista teologico: anche i dogmi hanno la loro evoluzione d’interpretazione, anche le tradizioni vanno storicizzate. Ad esempio la psicologia ci ha aperti alla consapevolezza che la dignità della persona non va eliminata neanche dopo i più efferati crimini, perché può sempre ripensarsi e ravvedersi. Non occorre finire sulla croce come il buon ladrone. Per cui esiste una distinzione fra crimine e criminale. Inoltre oggi un reo è facilmente perseguibile, e può venire catturato a differenza di un tempo in cui la cattura risultava più ardua. Ed ancora: oggi sono stati messi a punto sistemi di detenzione più efficaci che garantiscono una doverosa difesa dei cittadini. Insomma un discorso complesso che fa parte di tutto un mondo nuovo da approfondire e che potremmo titolare „Le costanti e le variabili della fede e della morale.”

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Albino Michelin
24.09.2018

martedì 23 ottobre 2018

LIMITI ALLE DEVOZIONI RELIGIOSE

Va subito sgomberato il terreno nel senso che non si tratta di fare piazza pulita delle devozioni in quanto tali, che spesso sono l’unico sostegno interiore di molta gente. Quanto piuttosto fare alcune considerazioni perché gli equivoci in questo campo esistono e parecchi, profondi e radicati. Intanto non andrebbero confuse le devozioni e le religioni da una parte con la fede e la spiritualità dall’altra. Le prime possono anche alimentare ed esprimere le seconde, ma le possono pure sostituire, manipolare e sabotare. Da che mondo è mondo ogni cultura, da quelle preistoriche alle nostre post moderne, venera i suoi santi, oppure eroi pagani, saggi induisti, guaritori africani tutta gente equivalente ai santi. Non si sa in fondo quale sia la differenza fra l’antica romana Diana dea dei boschi, e S. Isidoro patrono dei campi. Ed è ovvio pure che ogni religione passa attraverso forme culturali del tempo. In tempo di fame si crea la Madonna delle Galline, in tempo di fortune militari si tira fuori La Madonna delle vittorie. Tutto il mondo è paese, ogni essere umano sente il bisogno di protezione. Nei periodi tribali si offriva alla divinità i beni più amati, come il sacrificio di un bambino il cui sangue si spargeva alle fondamenta della città da fondare onde ottenere fortune e benedizioni dal dio di turno. Vedi anche il mito biblico di Abramo che arriva quasi ad uccidere il figlio Isacco per obbedire al suo Dio che lo renderà padre felice fra le nazioni. Oggi invece si adottano bambini a distanza per sentirsi ossequenti al nostro Signore che ci ingiunge ad amare il prossimo come noi stessi. Anche le forme di devozione sono evolutive. Attualmente noi assistiamo al boom dei pellegrinaggi, visite ai santuari, cortei processionali, feste patronali, adorazione perpetua del santissimo sacramento, a S. Rita, S. Antonio, anime del purgatorio. In fondo quale potrebbe essere un limite che si annida in queste pratiche? Tentiamo di citarne qualcuno. Ogni devozione potrebbe avere un potere paralizzante. Ad esempio interiorizzare una debole immagine di sé, il sentimento della propria mancanza di valore, magari rafforzato da un esagerato senso di colpa o di vergogna del proprio comportamento: una diminuzione della propria autostima. Per altri che praticano devozioni l’immagine di Dio tende ad essere una divinità dittatoriale, minacciosa, giudicante, che essi cercano di rendersi benevola e il cui favore continuamente invocano. La loro strategia per sentirsi protetti da Dio è quella delle preghiere ripetute in genere adottando formule imparate dall’infanzia, complessi e paure conservate con automatismo durante la vita adulta. Altri si sentono vittime di una sottile ma pervasiva tattica patriarcale o clericale che punta a mantenerli passivi e sottomessi. Ricordando costantemente a costoro i peccati, i fallimenti diventa più facile soggiogarne la volontà e le decisioni. Altri ritengono che sopportare croce, sofferenze, sacrifici con passiva rassegnazione alla volontà di Dio sia più importante che intraprendere azioni per alleviarli. Queste persone soggiogate e colonizzate nutrono scarso interesse per la Bibbia o per il libro sacro della loro rispettiva religione, cioè dimostrano poco discernimento critico. Le scritture sono per i preti, per gli imman, per i santoni, per i brahmani, non per il popolo e rimangono occasione per pregare, anziché uno stimolo di comportamento per la vita relazionale quotidiana. Per altri devoti i preti tendono ad apparire come i perfetti rappresentanti di Dio sulla terra. La chiesa è vista come emanazione della divinità. Ciò che conta è essere presenti alle funzioni religiose più che parteciparvi. Questi devoti sono coccolati dal clero che loda la loro religiosità come “fede semplice della gente semplice”, apprezzamento paternalistico che rinvia alla volontà di dominio e di controllo. Vi sono persone che nella vita agiscono anche in modo creativo e responsabile, ma quando si affidano alle loro devozioni cadono in una sorta di trance perdendo quella maturità, cui danno prova in molti ambiti della vita. Altri devoti sono preoccupati quasi soltanto della salvezza della propria anima. Obbiettivo delle loro devozioni è salvare la propria anima, l'aldilà. Questo, il nostro mondo non interessa più di tanto, valle di lacrime. Un’anima sola hai, se la perdi che sarai. Dualismo fra l’anima e il corpo, lasciano il mondo alla sua sorte, al cataclisma finale, alla sua distruzione incombente, alle apocalissi, così care alle apparizioni e alle devozioni mariane. Il limite è che tutte queste devozioni si fermano troppo ad una religione di consolazione ma non diventano religione di liberazione. A tali devoti spesso non interessa nulla del cosmo, cioè della natura, dell’ambiente, della desertificazione, dell’inquinamento globale, dello sfruttamento delle terre. Non ci soffermiamo poi alle devozioni di prostituzione, strumentali, tipicamente italiche, ipocrite, vero obbrobrio di Dio e dei santi suoi, quelle esibite a scopo di pubblicità, successo negli affari, risultati politici, agitando corone di rosario in piazza o adornando i covi mafiosi di un pantheon di santi. Pure nel rispetto delle devozione come consolazione interiore, va sottolineata la necessità di una correzione verso una religione di liberazione, quale impegno di liberarsi e liberare le relazioni umane dalla corruzione, dal razzismo, dall’odio verso il diverso, dal caporalato, dagli evasori fiscali, dai muri, dalle gabbie in cui rinchiudere i bambini. Gesù ripete:” non chi dirà Signore Signore, ma chi avrà fatto la volontà del padre mio…” Se abbiamo così tanti devoti e così poca umanità un motivo ci sarà: quello della inutilità di molte nostre devozioni religiose.

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Albino Michelin
17.09.2018

lunedì 22 ottobre 2018

L'INTEGRAZIONE DEGLI STRANIERI: UN IMPEGNO, NON UNA PRETESA

Lamon è un paese della provincia di Belluno che nel secondo dopoguerra ha registrato un consistente esodo di residenti verso paesi di emigrazione, come la Svizzera. Da Ginevra fino a S. Gallo i Lamonesi hanno invaso il territorio ricavandone un benessere personale e contribuendo a quello locale. Come sempre è avvenuto nella storia delle migrazioni. Sabato 15 settembre casualmente mi trovavo nella piazza del paese in occasione della fiera del Fagiolo e mi sento chiamare per nome da alcune persone. Con un ex emigrato rimpatriato di nome Marco ho potuto instaurare una chiacchierata, i cui punti salienti giova pubblicarli perché potrebbero essere di aiuto per gli italiani che oggi hanno a che fare con il problema stranieri ed immigrazione, “l’onda afroasiatica”. Il primo rilievo: Marco inizia dicendo che lui deve ringraziare sentitamente le missioni cattoliche del tempo, si parla di 60-50 anni fa, perché molto si sono prodigate per l’accoglienza, l’accompagnamento e l’integrazione dei connazionali in quel paese. Francamente era la prima volta in vita mia che sentivo parlare bene dei preti. Ma il mio interlocutore era sincero e nessuna intenzione di lustrare le pantofole. Qualche argomento come punto e spunto di riflessione. Si dice che al tempo gli italiani entrando in Svizzera dovevano essere muniti di contratto di lavoro. Rispondo; si e no. In effetti ricordo a Basilea, dove fui attivo verso gli anni 60 arrivavano torme di ragazzi e ragazze, in rapporto con dei parenti o paesani, ma in pratica spaesati e figli di nessuno, senza nessun contratto. E noi avendo una certa conoscenza delle ditte o famiglie disponibili li accompagnavamo a destinazione e venivano accolti. Noi non si chiudeva porti, porte e portafogli. Si dirà altri tempi. Certo ma anche altro spirito. Non interessa qui se avessero poi sottoscritto il contratto o premesso la visita medica. Venivano piazzati. Altro rilievo: gli alloggi, penuria e approssimazioni. Le missioni, specie Ginevra, si adoperarono per costruire delle baracche in legno, in collaborazioni e sostegno delle autorità locali. Non si trattava certo ci chalet, ma di strutture dignitose, con cucina, letto, servizi igienici. E anche questo era un aiuto all’integrazione. In Italia invece ti ammucchiano gli stranieri in un recinto murario come le sardine, e li abbandonano alla loro sorte a bighellonare per le strade. E che dobbiamo pretendere? Che siano una squadra del buon costume? Altro aspetto. Quella nostra gente era in genere analfabeta su tutto, munita solo di braccia e tanta buone volontà. Così le missioni   organizzavano corsi serali per muratori e tornitori, corsi serali per taglio a cucito a favore delle donne specie ragazze che venivano inoltrate nell’ambiente e rispettate. Utile per l’integrazione.  Altro aspetto importante era quello dei nidi d’infanzia, degli asili, e delle scuole primarie, sempre in collaborazione con gli uffici del luogo. Tutti ricordano questo tipo di assistenza a Ginevra, Berna, Basilea, Zurigo, S. Gallo.  Indubbiamente si inseriva anche qualche ora di lingua locale, francese o tedesco a seconda, e questo perché chi sa parlare acquisisce dignità e potere e si sa anche difendere. Strumento valido per l’integrazione. In Italia invece è una querimonia continua, da una parte perché in certe scuole si registrano troppi stranieri, in altre mancano o gli italiani e causa la denatalità si deve procedere alla chiusura.  Ma dove si cerca di introdurre anche accanto all’italiano la cultura dello straniero? Se qualcuno si mettesse in testa di esporre a scuola un’icona cinese, africana, orientale apriti cielo, invasione, vadano a casa loro. Altro rilievo: i nostri emigrati provenivano in genere da paesi tradizionali quindi necessitavano della messa domenicale. In alcune parti potevano usufruire delle chiese locali, ma in altre, nelle grosse città su citate, i cantoni benché di religione protestante collaboravano anche con sostegno finanziario affinché si costruissero chiese, luoghi di culto centri di aggregazione italiani. Il loro principio era che se si concede libertà religiosa nella propria lingua, usi e costumi si rende l’immigrato più sereno e disponibile all’integrazione.  In Italia invece per costruire una moschea si viene a sollevare un putiferio. Si, perché i musulmani sarebbero tutti terroristi, tutti dell’Isis e nascondono bombe a mano dentro i pantaloni. Si, perché secondo gli italiani Dio è solo cattolico, non musulmano e per i musulmani. In questo modo non si crea una piattaforma di convivenza ma sempre di sospetto e di denigrazione. Nessuna integrazione. Altro ancora: in determinati periodi dell’anno in Svizzera si organizzavano dei saggi con i bambini, tipo danze, concerti, teatrini in cui si tentava di accomunare tutti, i bianchi e i negretti, per abituarli a collaborare nel rispetto reciproco. Assemblage che continuiamo anche oggi specie con quelli di provenienza eritrea e siriana. In Italia ogni anno verso natale assistiamo a polemiche infinite perché tale o tal altro concerto deve essere sacro, alla cattolica, non si vogliono mescolare scabbia e virus di bambini e tradizioni straniere con tutte le loro varie stregonerie Altro che ponti, e inclusioni, muri anche qui ed esclusioni. Sono gli stranieri che devono venire a noi e rinunciare alle loro superstizioni e non noi andare da loro a fondere la reciproche tradizioni. Se non si continua a osteggiare questa cultura non vi sarà mai integrazione. Ma volenti o nolenti le emigrazioni fra qualche decennio avranno dimensioni planetarie. Gesù diceva “verranno dall’oriente e dall’occidente e si siederanno al posto dei figli del regno”. Indubbiamente lui pensava all’aspetto religioso, ma anche sul piano etnico e sociale questo si verificherà nonostante tutti i nostri catenacci e fili spinati. Dapprima avremo l’invasione dei ricchi, dei calciatori del pallone che milionari verranno da ogni latitudine a rubare il posto alle nostre speranze giovani che ci priveranno anche di una nazionale decente, verranno i cinesi ad acquistare tutti i bar ed arricchirsi con i nostri soldi, verranno gli inglesismi, neologismi tipo devolucion e i nostri vocabolari rimarranno senza legittima difesa a salvaguardare il verbo italiano del grande Dante Alighieri.  Prima gli italiani e padroni a casa nostra diventeranno slogan vuoti, retaggio di un tempo che fu. Il nostro errore è quello di pretendere che gli stranieri (che poi sono percentuale limitata) si integrino, se no tornino a casa. Non pensiamo che l’integrazione richiede impegno di strutture e di personale da parte nostra, Questi discorsi ci sono venuti spontanei a Lamon nella sagra del fagiolo con l’ex emigrato in Svizzera Marco a dimostrazione anche che non tutti i veneti e i connazionali rientrati sputano sul piatto dove hanno mangiato, non tutti denigrano i loro ospitanti elvetici e i nostri nuovi immigrati. Né queste note sono state qui pubblicate per esaltare la Svizzera quasi fosse l’Eldorado e il paradiso terrestre. Anche lei ha avuto ed ha le sue sacche di xenofobia, ma certo non cosi viscerale. E nemmeno si vuole fare del clericalismo ed esaltare il ruolo delle missioni cattoliche, al tempo ruolo sociale oltre che religioso, (e oggi missioni per l’integrazione), ma per citare delle esperienze, che prese sul serio potrebbero umanizzare i nostri rapporti con gli stranieri in Italia. Perché sia detto, si respira un’aria pesante, greve, sospettosa, di caccia all’untore quando si valicano i confini per trascorrere qui qualche periodo di riposo o di turismo. L’integrazione in Italia sarà possibile quando si inizierà a parlare meno alla panza del popolo, si cesserà di istigarlo. Quando avremo meno fegato e più cuore.

Autore
Albino Michelin
16.09.2018

domenica 29 luglio 2018

QUANDO LE DONNE PIANTANO IL CHIODO

"La donna è mobile" canta il duca di Mantova nel terzo atto dell’Opera Rigoletto di G: Verdi(1851). Un’aria popolare a tutti nota. Però non si confondano arte, musica, fantasia con la realtà. Oggi forse il costume sta cambiando. Tutto è mobile, non soltanto la donna. Ma altro è riconoscere parità di diritti e di uguaglianza uomo-donna, altro è la pretesa di livellare i due mondi, sino ad annullarne le differenze. Per quanto la natura, quella umana compresa, sia evolutiva, non si può ipotizzare che ciò avvengano un prossimo futuro. Al di là dell’aria popolare di G. Verdi, non vanno sottovalutate le caratteristiche profonde dei due sessi. L’uomo è portato più alla produzione, al mondo esteriore, all’organizzazione, alle cose. La donna di più all’assistenza, al mondo interiore, alla spiritualità, alla formazione, alle persone. Intuitiva, costante nelle decisioni, insistente, si identifica con i suoi progetti, non dimentica, riemerge a onda lunga. Non molla mai l’osso. Questo modello viene alla mente anche in questioni attuali, ad esempio in riferimento al ruolo della donna nella chiesa, sacerdozio femminile incluso. Papa Wojtyla aveva a suo tempo bloccato il discorso senza discussione e di autorità. Che la donna non faccia il prete è volontà di Dio. Argomento archiviato? Per i maschi sì, ma per le donne no. Anzi si amplia a macchia d’olio in molti altri aspetti e in ogni occasione. Ne fa fede il recente libro di Jaqueline. Straub: ”Perché voglio diventare prete”. Si chiede perché dobbiamo restare bloccati da reliquie di una prassi bimillenaria e che alle parole roboanti rivolte alle donne dagli alti palazzi, in cui le si esaltano come coraggiose, intelligenti, perfino geniali non sia mai seguita alcuna concessione sul piano delle responsabilità e del potere. Escluse da ogni ambito della direzione e ministerialistà della chiesa. In tutti i parlamenti del mondo le donne siedono con competenza e professionalità, solo in vaticano le donne sono ridotte a portaborse, o poco più, non accettate a capo di dicasteri, come quello della famiglia, dell’educazione, della canonizzazione dei santi, occupati con i denti mascellari e accuratamente da cardinali maschi. Si inventano ostacoli pseudo teologici, ma la questione è sempre la stessa, ”destino fisiologico e biologico.” Le donne devono sempre fare la voce grossa per ottenere un cambiamento. In questo contesto significativa è la presa di posizione della Conferenza Americana Femminista, già attiva dal 1975 che ha divulgato di recente un questionario: ”Dopo 5 anni di pontificato di Bergoglio che cosa è cambiato nel binomio chiesa-donna”. Già qui si nota un bel coraggio. Agli uomini non interessa, siamo ancora alla calzetta, ma le donne rilanciano. Senza mettere in discussione la validità globale e profetica di papa Francesco nel suo complesso, però nel dettaglio esprimono le loro riserve in riferimento all’ultima esortazione ”Gaudete ed Exultate “ del 19.3.2018. Dichiarano che tale documento non ha suscitato in loro interesse come le precedenti esortazioni, specie sul significato della santità, in cui vengono coinvolte di ambiguità. Esprimono inquietudine per questo ulteriore esempio di romanticismo popolare in cui le donne si trovano posizionate quali proiezioni di ideali teologici maschili con scarsa consapevolezza delle realtà da loro vissute. Non accettano di venire considerate nella chiesa come il “genere altro”, demonizzato nel passato dagli insegnamenti cattolici ufficiali, romanticizzato e patrocinato oggigiorno, quasi richiesta di scusa. Un senso di enfasi e di euforia, più di convenzione che di convinzione. E qui ti fanno suonare un campanello di allarme al nr.12 di “Gaudete…”, in cui si dice che il genio femminile si manifesta in stili femminili di santità. Il termine “genio della donna” lo trovano di una banalità vacua, quasi ironica. Tanto è incluso che il nostro corpo femminile, continuano le donne, ci impedisce di rappresentare Cristo sull’altare, estranee alle istituzioni della leadership educativa nella chiesa. E poi passano al nr.118 della stessa esortazione, dove rilevano un conflitto sempre legato alla questione del genere, in cui Papa Francesco affronta la relazione fra umiltà e umiliazione. Nodo scoperto per le donne, che ovviamente risentono nel loro DNA le umiliazioni inferte loro dalla storia patriarcale del passato. L’umiltà secondo Bergoglio, può radicarsi nel cuore soltanto attraverso le umiliazioni, senza di esse non c’è né umiltà, né santità. L’umiliazione porta ad assomigliare a Gesù. Le donne considerano inappropriato questo approccio alla santità che contraddice alla passione di Papa Francesco per i poveri, i discriminati, gli umiliati. Non è vero che un rifugiato, un torturato, una vittima di abusi, una donna intrappolata in un matrimonio violento stiano imparando una lezione di umiltà. L’umiliazione degli impotenti non è un cammino verso la santità e verso l‘umiltà né per l’autore, né per le vittime. L’umiltà è segno di maturità e di autoconsapevolezza dei propri limiti, ma l’umiliazione non andrebbe mai accettata e tanto meno santificata. Non è questa una reazione insubordinata nei confronti del Papa, ma un’osservazione riferita al maschilismo innato ed occulto in ciascun uomo di chiesa, forse rimasuglio del grande e troppo esaltato Concilio Vaticano II, (1962-65) il quale sotto il Cupolone ha raccolto in assise ben 2500 partecipanti, di cui però solo 16 donne (9 nubili e due vedove di guerra). Proprio per questo Bergoglio vede di buon grado la proposta del viennese Card. Schönbrunn di organizzare un nuovo concilio ecumenico a favore del sacerdozio femminile. Un bel risultato. Importante oggi è seminare: a suo tempo si potrà anche raccogliere.

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Albino Michelin
25.07.2018 

sabato 28 luglio 2018

PER UN DIALOGO RELIGIOSO FRA CRISTIANI E ISLAMICI

Ci mancava solo questa, una giornata annuale dedicata al dialogo ecumenico fra cristiani e islamici. Si, è vero e cade il 27 ottobre. E siamo giunti già alla diciassettesima edizione, essendo stata istituita nel 2001 in seguito alla islamofobia cresciuta dopo l’attentato alle Torri Gemelle di New York. Programma e coordinamento sono un impegno della rivista “Dialoghi di Monteforte Irpino” che nel mese scorso ha inviato una lettera di augurio e di sostegno di “Buon Ramadan” celebratosi dal 14 maggio al 16 giugno, nono mese lunare del calendario Islamico. Un periodo di preghiera e di digiuno come prassi di tutte le più importanti religioni allo scopo di intrattenersi per un certo periodo con la propria fede. Ad esempio per i cristiani i 40 giorni di quaresima. In Italia con 2,6 milioni di Musulmani il Ramadan è visto come una stranezza e giudicato con ironia. L’anno scorso la giornata ha avuto come di consueto una valenza formativa, con partecipazione di diverse comunità cristiane ed islamiche a Roma, Parma ed altre città ponendo come argomento di riflessione: ”Il ruolo della donna nel dialogo interreligioso e interculturale.” La nostra società occidentale è percorsa da una sempre più feroce islamofobia. Un razzismo su base religiosa per nulla nuovo nella storia dell’umanità, variante di quell’antisemitismo che ha caratterizzato la prima metà del secolo scorso, con conseguenze mostruose per tutta l’umanità. L’islamofobia, si voglia o meno, è proprio una variante dell’antisemitismo, cioè dell’odio contro gli ebrei. Gli stessi contenuti, le stesse rivendicazioni e parole d’ordine, gli stessi gruppi politici variamente mascherati che hanno sostenuto l’antisemitismo nella prima metà del 900 caratterizzano l’islamofobia attuale. E anche oggi le norme restrittive alla libertà religiosa che si vorrebbero imporre e che già operano in alcune regioni del nord d’Italia e altrove, e che il nuovo governo si appresta a estendere a livello nazionale, vengono spacciate come norme a difesa della democrazia. E quelli che alimentano l’islamofobia sono gli stessi che continuano a fomentare il mai morto antisemitismo, che però oggi si cerca di addebitare agli arabi e musulmani in genere, tentando di falsificare la storia perché, diciamocelo chiaro, l’antisemitismo è una malattia tipicamente cristiana, che nasce agli albori del Cristianesimo, Europa dalle radici cristiane, fin dal terzo secolo d.C., quando l’originario movimento dei seguaci di Gesù di Nazareth si trasformò in religione dell’impero romano, che doveva differenziarsi dalle altre religioni esistenti e rivendicando potere e superiorità su di loro. E dobbiamo confessare che l’antisemitismo è un nervo ancora scoperto delle chiese cristiane che tendono a negare le proprie responsabilità alle violenze in questo settore compiute lungo i secoli. L’islamofobia oggi si scarica soprattutto sulle donne musulmane vittime principali, sistematicamente offese e aggredite per il loro modo di vestire che offenderebbe, secondo gli aggressori, la libertà delle donne occidentali. Negato loro l’accesso ai lavori che comportano un rapporto con il pubblico perché portano il velo. Con questo non intendiamo il burka che copre totalmente il viso. Una vera velofobia irrazionale che denota gravi problemi psichiatrici per i maschi occidentali che della battaglia contro il velo hanno fatto la loro ragione di vita. Sono gli stessi non a caso che sostengono la legalizzazione della prostituzione. Vogliono le donne prigioniere di un modello culturale utile a fini pubblicitari in quanto è dimostrato che la sessualità è un potente stimolo per gli acquisti. Modello culturale sostenuto dalle Tv fognatura, che produce i continui femminicidi e le sempre crescenti molestie sessuali, cui sono sottoposte milioni di donne italiane e non. Donne cristiane e donne musulmane possono dunque insieme opporsi ad una modello di società che le schiavizza sotto forme diverse. Al momento il dialogo è difficile, come lo era cinquant’anni fa quello fra cattolici e protestanti. Difficile ma ineludibile e non differibile. Le comunità musulmane sono attaccate nel loro diritto di esistere attraverso una campagna forsennata di chiusura dei loro luoghi di culto, tipo moschee, che con motivazioni fra le più aberranti cerca in ogni modo di identificare l’islam con terrorismo. Le comunità cristiane d’altra parte che tentano anch’esse il dialogo sono accerchiate perché praticano l’accoglienza ai migranti. Vengono spesso aggredite e minacciate da forze politiche che si ergono addirittura a custodi della dottrina cattolica. Si pensi alle violenze non solo verbali contro il parroco di Vicofaro (Pistoia) che accoglie nelle strutture parrocchiali una novantina fra senza tetto italiani e profughi africani, e che l’estate scorsa condusse in piscina una gruppo di questi ultimi, premio per aver aiutato come cuochi e camerieri nella festa “Amici di Francesco”. Dileggiato il prete, bucate le gomme delle bici dei sistemati nella struttura. Penoso che all’interno della stessa chiesa vi siano gruppi religiosi fondamentalisti addestrati alla battaglia contro l’Islam e contro tutto ciò che vi ha attinenza. Inaccettabili mercenari quei mercanti nel tempio che giurano pubblicamente su Vangelo e rosario per reclutare militanti alla bisogna. Una componente importante del mondo cristiano fa parte di questa crociata, più interessato allo stato quo, alle devozioni, ai ritualismi senza slancio evangelico e missionario verso le periferie. Non occorre fare demagogia gridando ”siamo tutti musulmani”, ma convincersi che qualsiasi arbitrio fatto contro i musulmani è un arbitrio nei confronti degli appartenenti a qualsiasi religione e a tutti i cittadini. Come anni or sono nelle parrocchie si è iniziata la giornata dell’amicizia per aggregare gli abitanti del luogo e nuovi arrivati così lodevole sarebbe già da subito l’iniziativa di organizzare ogni anno, e non solo il 27 ottobre, la giornata dell’incontro e della festa ecumenica cristiani-islamici con iniziative garantite da entrambe le parti. Con l’esposizione e spiegazione pure dei simboli islamici. Purtroppo nessuno sa che la mezzaluna è un’icona dal significato religioso e di rendimento di grazie. Una buona strada per la futura convivenza.

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Albino Michelin
16.07.2018

giovedì 26 luglio 2018

EQUIVOCI FRA LAICI E CATTOLICI

Oggi circolano delle espressioni abbastanza confuse in materia. Basta riferirci per esempio a “laico, laicità, laicista, laicismo, religione, religioso, fede, fedele, spiritualità, spiritualista…”Indicano realtà molto diverse, talvolta opposte. Se ci poniamo dal pulpito della religione, nel nostro caso della chiesa cattolica, la laicità è un nemico da combattere, è un tarlo che può corroderla e distruggerla dall’interno. Vale la pena intenderci sulle parole e sulla evoluzione delle rispettive ideologie che vi sottostanno e che attraverso i secoli non hanno sempre mantenuto il loro significato specifico. Nei primi periodi del Cristianesimo: laico, dal greco “laos” veniva contrapposto a chierico, clericale. Quasi due fazioni o partiti: il primo popolare, incolto, illetterato, ignorante. Il secondo elitario, selezionato, colto, con il compito autoreferenziale di istruire, giudicare, colpevolizzare, esigere sudditanza, condannare, scomunicare, mandare all’inferno. Significativo il caso di Canossa, (Reggio Emilia), una diatriba fra impero e papato, in cui Gregorio VII convocò allo storico castello Enrico IV, che si era permesso un colpo di testa insediando a Milano certo Tebaldo. Però lo fece attendere tre giorni al freddo e al gelo senza cibo nel rigore dell’inverno 1077 prima di togliergli la scomunica. Per cui già nel 1300 Marsilio da Padova iniziò con norme giuridiche a rivendicare l’indipendenza dell’impero dal papato. Per tali premesse ovvio che con il tempo si scivolò verso l’anticlericalismo contro l’invadenza del clero. Fenomeno che assunse forma più marcata dopo il Rinascimento con l’illuminismo, corrente che riteneva prioritario credere al lume della propria ragione prima che all’autorità della chiesa. Anticlericalismo che diventò polemico e mangiapreti da Pio IX quando avversò l’Unità d’Italia nel 1860 e poco dopo condannò con il “Sillabo” le nuove scienze e la libertà di coscienza. Ne fa fede a cavallo del 1800-900 la rivista “L’ Asino”, un vero zibaldone di cotte e di crude contro il clero. Sentimento che non diminuì con Mussolini per il concordato Stato-Chiesa(1929), con Papa Pacelli per la scomunica dei comunisti (1948). E siamo arrivati all’oggi in cui almeno ci si è fatto chiarezza sui termini. Per laicità si intende indipendenza della stato dalla chiesa, sia pure nel rispetto e talora sostegno giustificato. Mentre laicismo vorrebbe significare opposizione contro l’interferenza e i diktat della religione nella vita politica. E nell’attuale società si intuisce la scomparsa o una rilevante diminuzione dell’anticlericalismo a vantaggio di una tolleranza delle diversità. Non esiste più una marcata differenziazione fra il laico, il religioso, lo spiritualista. Cioè possiamo incontrare gente che si definisce nello stesso tempo laica (fede nell’uomo e i valori umani), religiosa (praticante saltuario ma credente in un essere superiore), spirituale (autocosciente, responsabile nei confronti del sacro personale e trascendente) Senza polemiche, scandali, scomuniche. Il che non ha niente a che vedere con il relativismo, o la liquidazione dei principi, ma solo non una doverosa chiarifica delle proprie scelte. Se passiamo però da questa impostazione teorica al rapporto della chiesa e della cattolicità verso lo Stato si notano delle resistenze: la tentazione del cesaropapismo. Cioè Papa-re, chiesa referente e interferente politico. E di qui atei e agnostici che improvvisamente si spacciano per apostoli folgorati sulle via di Damasco e che astutamente ti strumentalizzano chiesa, dogmi, Bibbia, devozioni a scopo dei loro interessi e soprattutto del loro successo politico. Nel cinquecento si diceva “cuius regio eius et religio”. Che fa la religione e l’appartenenza politica di un popolo e di una regione è il duca di turno. E i nostri politici (non entriamo nella bontà o meno del loro partito, qui non c’interessa) con scaltrezza al momento opportuno ti mettono sul mercato radici cristiane, Vangelo, santi, madonne, culto del santo chiodo, delle reliquie, feste patronali, tutto fa brodo a scopo elettorale. Non mancano le conferme. Alla fine della campagna elettorale (marzo 18) Salvini in piazza duomo di Milano agita il crocefisso e giura sul vangelo di difendere i valori della tradizione cattolica (cha fra l’altro inculca l’unità della famiglia, ma la sua l’ha sfasciata) e astutamente censura la parola di Gesù che suona: ”ero forestiero e mi avete accolto (Mt.25,35) Amatevi come io vi amato…Gli ultimi siete tutti fratelli figli dello stesso padre…” Che questa sia prostituzione del sacro al popolo non interessa. A Napoli Di Maio si mette in processione, secondo un antico cliché alla guisa dei suoi predecessori, e nell’ostensione del sangue di S. Gennaro va a baciare la reliquia, incurante dell’igiene e pericolo dei batteri. Il popolo in delirio lo voterà in massa. A Brugine in provincia di Padova nei giorni precedenti la pasqua il sindaco Giraldo fa costruire 17 crocefissi da appendere nelle aule scolastiche che ne erano prive. L’ossessione del crocefisso in quelle terre paga a suon di voti. I nuovi politici sono vecchi dentro per ingraziarsi chiesa e devoti suoi. Ma non mettiamo sulla graticola solo gli italiani, tutto il mondo è paese. In Baviera il leader M. Söder impone il crocefisso all’ingresso di tutti gli edifici pubblici. Per non parlare dell’ipocrisia dei nostri quando siedono in parlamento: fucile spianato contro l’aborto, testamento biologico, eutanasia, omosessualità, jus soli, diritto di cittadinanza… e poi nel loro comportamento chi se ne frega. Con lauti guadagni degli elettori se ne vanno ai confini del mondo per esaudire i loro sfizi. A tirar le somme: meglio un sano ateismo e laicismo che un falso e bolso cattolico clericalismo

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Albino Michelin
12.07.2018

domenica 15 luglio 2018

CATTOLICI IN CONFUSIONE PER TANTO POCO

Non vale la pena qui perdersi in diatribe fra cattolici conservatori e progressisti, perché per tutti il termine di riferimento dovrebbe essere il vangelo. Le correnti o le religioni e relative interpretazione qui non entrano in linea di conto. Nemmeno interessa la distinzione fra dogmi fissi ed immutabili della chiesa da una parte e costituzioni, encicliche, leggi ad tempus dall’altra. I cattolici comuni non fanno queste distinzioni, invece si chiedono come mai nel passato, non importa se fino a 20 o a 70, anni erano tenuti ad obbligazioni addirittura sotto pena di peccato, ed oggi di peccato non si parla quasi più. Quasi storditi si chiedono: ma cambia anche la religione? Per certa gente la domanda è seria. Soltanto che le risposte la chiesa non si è mai o si è poco preoccupata di darle, ripiegando sul solito “proibito capire obbligati a obbedire”, oppure è arrivata in ritardo, o addirittura aspetta che la gente divenga più ”matura”. E intanto i buoi sono già scappati dalla stalla. Il discorso non vale ovviamente per tutti i cattolici, i quali si potrebbero distinguere in due categorie, anche se con espressioni inadeguate e non se ne offendano: cioè i sedentari stanziali e i ricercatori critici. I primi sarebbero i fondamentalisti, saldi nelle verità certe e sicure, e anche coloro che preferiscono una religione ed un catechismo ripetitivo, senza preoccuparsi dei perché, un po’ pigri, seduti comodi in poltrona, paghi delle loro certezze. In genere gli anziani, non quelli anagrafici, ma quelli nati vecchi pure ventenni e allergici al pensare. Dall’altra parte vi sono invece i ricercatori critici o che desiderano motivare la propria fede, e dei cambiamenti farsi una ragione. L’esigenza che la chiesa dia risposte secondo le mutate esigenze dei tempi in continua evoluzione. Se ad esempio quelli della prima categoria vanno ad una messa in cui il prete parla all’antica, ripete le solite cose sia pure edificanti, magari con linguaggio altisonante e minaccioso allora si trovano a loro agio. E ti ripetono che loro vanno in chiesa per Dio, non per il prete. Ma se ti capitano da un prete che traduce il vangelo in discorsi di attualità e fa riflettere, lo tacciano di contestatore, dissenziente, fuori di testa, lo disertano ed emigrano altrove. I secondi, spiriti critici, invece se nelle funzioni religiose s’incontrano con un tipo del genere se ne vanno perché ti addormenta, non è comunicativo, resta in bigoncia, per niente accogliente, ti racconta la storia dell’orso, e non li vedi più. E ti ripetono che loro non vanno in chiesa per Dio, ma per il prete se glielo rende interessante. Non è certo questa l’unica spiegazione del calo a picco delle messe festive, ma non l’ultima. La legittima preoccupazione da parte del clero di tenere al sicuro le pecorelle nell’ovile e quindi non destabilizzarle sarà una preoccupazione legittima, ma forse è preferibile oggi la fedeltà alla verità e di conseguenza che ciascuno tiri le somme delle proprie scelte. Qualche esempio delle ”confusioni”, dalle più insignificanti alle più complesse. Nella messa fino a poco tempo fa era proibito prendere l’ostia in mano e masticarla. Oggi invece è cambiato tutto. Si prende e si mangia. Una volta era proibito fare la comunione se non si era digiuni dalla mezzanotte, oggi la si fa anche poco dopo aver consumato un lauto banchetto. Una volta era proibito leggere la bibbia, persino con scomunica dei papi e recentemente aberrazione dei testimoni di Geova, oggi invece si inducono tutti a studiarla e meditarla. Una volta era obbligatorio il digiuno e l’astinenza dalle carni al venerdì, oggi invece ci si abbuffa tutti i giorni eccetto qualche rara occasione, come il venerdì santo. Un tempo i cattolici che si permettevano di diffondere le loro idee contrarie alla tradizione venivano condannati quali eretici al rogo, vedi Savonarola, Giordano Bruno, ecc. Oggi invece corre il libero pensiero, scomparsa la pena di morte. Una volta era proibita la comunicazione con gli ebrei, rei della crocefissione di Gesù, i rapporti con Lutero anticristo e i protestanti, oggi invece si deve dialogare, e magari anche imparare da loro. Una volta si dichiaravano guerre sante a liberare il santo sepolcro e contro i musulmani, oggi invece si dice che Dio non è cattolico, è di tutti e bisogna fare testimonianza e non proselitismo. Un tempo la devozione ai santi era radicata nel popolo, oggi ti vengono a dire con la riforma di Paolo VI del 1966 che S. Marina, S. Sabina, S. Giorgio, Santa Filomena e tanti altri sono leggendari, per niente storici e mai esistiti. Ai tempi di Gesù gli apostoli si sposavano e avevano la libertà di scelta, oggi invece un prete sposato viene esonerato dall’incarico. Fino a qualche tempo fa i fidanzati che convivevano prima del matrimonio erano allontanati come concubini ed eventualmente sposati per penitenza alle prime luci dell’alba, oggi invece conviventi, separati, sposati in civile vengono contattati e pressati per fare il sacramento ecclesiastico. Ieri i divorziati venivano esclusi dalla comunione oggi si concede loro il diritto al discernimento secondo coscienza e se la possono fare. E avanti con una infinità di casi. E la gente, quella in genere dei cattolici tradizionalisti e conservatori, a chiedersi “ma chi ne capisce più qualcosa”? E con un certo ammutinamento ti dicono di perdere la fede. La risposta potrebbe essere scontata: basterebbe che preti, catechisti, insegnanti si prendessero cura di spiegare la logica dell’evoluzione nella natura, nell’ambiente, nella cultura, nella storia, nella tradizione, nella psicologia, nella formulazione religiosa, nel magistero, distinguendo il tronco dalle foglie, l’essenziale dall’effimero. Diversamente per delle piccolezze si finisce nel caos cattolico. Certo è ad ogni modo opportuno che un prete o chi per lui allorché parla ufficialmente distingua con esattezza ciò che la chiesa ritiene per definitivo, ciò che ritiene per riformabile, ciò che ritiene in fase di studio. E’ per questo motivo che il sottoscritto modestamente dopo di aver pubblicato nel 2017 il volume “Interrogativi sulla esistenza umana” si sente in dovere di dare prossimamente alle stampe un secondo dal titolo ”La costante e le variabili della fede e della morale nel nostro tempo”.

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Albino Michelin
09.07.2018

sabato 14 luglio 2018

AIUTARLI A CASA LORO: MA QUALE CASA!

La solita domanda che circola talvolta con troppo cinismo:” come mai spendiamo 35 euro al giorno per ospitare un migrante se con 6 dollari al giorno potremmo renderlo felice a casa sua”? Intanto i 35 euro non provengono dalle tasche degli italiani, ma di tutti gli europei. Inoltre non si dimentichi che l’Unione europea ha stabilito di triplicare il fondo assistenza emigrati dai 13 miliardi nel quinquennio 2014-2021 ai 35 miliardi nel quinquennio 2021-2026. E’ vero che i soldi degli europei sono pure in parte anche degli italiani, ma praticamente a pensarci bene sborsiamo si e no l’equivalente di un caffè al giorno, che vanno nelle tasche dei gestori dell’accoglienza, di cui due-tre euro a questi poveracci per qualche svago. Siccome nell’articolo vanno utilizzate statistiche e numeri può darsi si incorra involontariamente in qualche errore arrotondato verso l’alto o verso il basso, però i fatti e i sentimenti che vi soggiacciono sono reali e fuori discussione. “Aiutiamoli a casa loro”. Piano con le parole perché la loro casa è in vendita e sta diventando la nostra casa europea o globale. Una breve rassegna. La Corea del sud ha acquistato metà dei terreni del Madagascar. Gli Emiri arabi 400 mila ettari dalla Tanzania. La Cina in leasing 3 milioni di ettari dall’Ucraina (che non è l’Africa, ma cade sotto la stessa logica) per il suo grano. Una società inglese (N.F.C.) commercia legname in Uganda dove 22 mila persone hanno dovuto lasciare le loro abitazioni causa l’agromania degli invasori. Il Qatar si è preso in Kenya 40 mila ettari di terreno con 150 pastori e pescatori per costruire un porto sul mare. Extra africani hanno acquistato 30 milioni di ettari nell’Africa subsahariana per un periodo da 20 a 100 anni, con l’accordo dei dittatori. Popolazioni silenti, pena rischio della vita. Si vende tutto con dentro case, villaggi, pascoli, acqua. Il conto? Da due a 10 dollari per ettaro, quanto un chilo di melanzane al mercato del Trionfale a Roma. Si regala. Vedi lo sfruttamento dei neri da parte del caporalato per le fragole della Calabria e pomodori della Puglia. Il fenomeno si chiama “land grabbing”, cioè accaparramento delle terre. Il gruppo italiano Tozzi possiede 50 mila ettari e altrettanti la Nuova Iniziativa industriale (NII). In Etiopia, i cui mazzetti di rose arrivano sui nostri tavoli a delizia degli innamorati, i cui raccoglitori vengono pagati 60 centesimi al giorno, dove il 46% della popolazione è a rischio di fame, capitali stranieri hanno costretto duecentomila indigeni ad evacuare la valle dell’Omo a scopo sfruttamento intensivo. E di questi capitali stranieri 200 milioni di euro sono italiani. Sviluppo a chi e per chi? I ricchi del Qatar, Arabia Saudita, Cina, Giappone, Corea del Sud, India con una mancia svaligiano tutto e nemmeno si pongono il dubbio di lasciare le cose in ordine, del “chi rompe paga”. E lo scempio del Congo, il paese più ricco del mondo e più povero, disorganizzato e turbolento. Dove ti piombano le multinazionali, saccheggiano il coltan, materiale prezioso per strumenti di elettronica, estratto perfino dai bambini nell’inferno delle miniere, e scompaiono. Quante vite costano i nostri telefonini. E noi ad infierire sui profughi, provvisti di cellulare: è proprietà loro, piuttosto noi ne siamo gli usurpatori. Per di più l’occidente lontano dagli occhi indiscreti, versa in qui territori rifiuti tossici che esso non vuole smaltire: la puzza a chi puzza. Basta sulla rassegna, ognuno può aggiungere del suo. Ma lo scandalo più grave è la vendita di armi. Lasciamo stare gli Usa, primo paese di esportazione di ordigni bellici in Africa. Usa, Francia, Corea del Nord vendono armi all’Etiopia. Gli stati europei vendono all’Africa armi per 18 miliardi all’anno. l’Italia è il secondo paese esportatore di armi in Africa. Negli ultimi 5 anni ne abbiamo venduto per l’ammontare di 17 miliardi di euro, di cui 5 nell’Africa settentrionale. Bravi, bene, così obblighiamo le forze migliori, i giovani e bambini a scappare causa le guerre tribali, li costringiamo a fuggire da noi, a destabilizzare anche i nostri ordinamenti. Ma abbiamo pronta l’obbiezione. Anche i nostri paesi occidentali nei secoli passati furono vittima di invasione e colonialismi, però si sono ribellati e hanno costruito un futuro di benessere. D’accordo, però per reagire bisogna avere gli strumenti. Le armi da noi vendute sono in mano ai dittatori e ai tribali. L’Etiopia dal 1991 ha sì raggiunto una parvenza di democrazia, il Ghana cerca di farsi strada, ma gli altri? Aiutiamoli a casa loro, ma onestamente loro a casa nostra che cosa portano? I lavoratori immigrati versano 11 miliardi all’anno per contributi previdenziali con saldo positivo per l’INPS. Essendo più giovani (un settantacinquenne ogni dieci italiani, un settantacinquenne ogni cento stranieri), godono meno del sistema pensionistico e lo foraggiano di più 620 mila italiani ricevono la pensione grazie al loro lavoro. Nel 2016 i lavoratori stranieri hanno dichiarato al fisco 45 miliardi, versando Irpef per 7 miliardi. Gli italiani pare abbiano evaso per 100 ed oltre miliardi. E non ripetiamo le stese cose, quale sarebbe il costo dell’assistenza domiciliare senza colf e badanti, o quante imprese sarebbero fallite senza un sottocosto degli immigrati. Sembra 200 mila secondo le stime. L’Africa è formata da 53 stati e conta 1.1 miliardi di abitanti che nel 2050 arriveranno a 2,4 e nel 2100 a 4 miliardi, mentre l’Europa con i suoi attuali 740 milioni e calo demografico deve ripensarsi se vuole evitare incubi notturni. D’accordo con gli italiani per una solidarietà sostenibile, compartecipata e suddivisa, ma non è sbattendo le porte in faccia e bloccando i porti che si risolve la “pacchia e le crociere”, problema gigantesco e planetario. Queste riflessioni cercano di dare la misura esatta della vergognosa mistificazione che si sta realizzando ad opera de nostri politici, l’informazione manipolata, la radice intima del razzismo di massa, che si nutre di bugie per nascondere la realtà. Ai politici basta solo la parola e la propaganda, pietanza gustosa per molti italiani e cattolici che giurando sul vangelo e sventolando il rosario vengono istigati al cinismo e all’odio verso l’immigrato” africano”. Grazie al vicentino Beppi De Marzi, compositore di fama mondiale e fondatore del coro “I Crodaioli” per la sua ultima canzone:” I bambini del mare hanno gli occhi color conchiglia”

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Albino Michelin
06.07.2018

martedì 12 giugno 2018

SACRIFICI UMANI E MASOCHISMI PER PLACARE LA DIVINITÀ

E’ recente l’informazione apparsa sulla stampa che in Perù sono state rinvenuti negli scavi archeologici fosse comuni con sepolti da oltre 550 anni, previa esportazione del cuore, 140 bambini dai 5 ai 14 anni, che risulterebbero sacrificati alle divinità precolombiane Inca, Maya, Aztechi. C’è chi sostiene si tratti di inciviltà, chi di religioni aberranti, chi di una psicologia DNA radicata sin dalle caverne nell’animo umano, magari con diverse forme evolutive, secondo le quali, ogni divinità, rivelata o creata secondo i bisogni, da quella preistorica a quella attuale, qualsiasi essa sia, ti si rende amica e benevola solo attraverso sacrifici e offerte dei propri beni più cari e più importanti. Non occorre qui un lungo elenco di tutti gli olocausti subiti e operati dagli umani in materia. Euripide parla di Agamennone che imbaldanzito di caccia grossa promise di sacrificare la figlia Ifigenia. Sarà un mito però lo stesso voto viene descritto nella Bibbia, in cui si legge che Jefte promise in caso di vittoria contro i nemici di sacrificare alla divinità la prima persona che avrebbe incontrato al suo ritorno e si trattò di sua figlia. Nel Medioriente il dio del fuoco Moloch era ingordo di sacrifici umani: chi si avvicinava ad esso riceveva una luce ed una forza divina. Quando si costruiva una città era pure un rito religioso quello di uccidere un figlio e cospargere del suo sangue le fondamenta allo scopo di rendere patroni gli dei, e di far partecipe della divinità lo stesso figlio. In Grecia le baccanti sgozzavano i bambini per ottenere protezione dall’alto. In Svezia i vichinghi del nord offrivano sacrifici umani al Dio Odino. Le tribù celtiche ogni cinque anni organizzavano una specie di fiera agricola e si nutriva la Dea madre terra con il migliore dei concimi: bambini ed esseri umani. Il re longobardo Alboino aveva l’abitudine di bere il vino nel cranio della moglie Rosmunda. Ancor oggi in alcuni siti dell’Uganda ogni anno vengono consegnati 900 bambini agli stregoni per i loro riti propiziatori. Un classico da non dimenticare sull’argomento è il sacrificio di Isacco. Il libro sacro del Genesi racconta (22,1-18) che Abramo sente l’invito di Dio di prendere il figlio Isacco, condurlo sul monte e ucciderlo sopra l’altare per fare all’Eterno cosa gradita. Mentre Abramo stava per piantare il coltello nel giovane, Dio gli fermò il braccio e gli ingiunse di immolargli un capro lì accanto. Lo scrittore accenna che Dio voleva mettere alla prova il patriarca. Ora sia chiaro: se la vita è sacra Dio non può indurre nessuno in questo tipo di tentazione. Il caso merita una riflessione: si tratta di una trasposizione sul piano religioso di una civiltà che sta evolvendosi dal sacrificio umano si passa al sacrificio degli animali. Lo dimostra un altro passo biblico: Dio ha in abbominio i sacrifici umani (Giud.1,31). Che bisogno aveva Dio di fiumi di sangue degli animali sgozzati e sparso sugli altari? E in suo onore? Già i profeti cominciarono a contestare questa religione e questa civiltà: “voglio l’amore, non i sacrifici, la conoscenza di Dio e non gli olocausti” (Os.6.5). Per non dire poi come le cose cambiano radicalmente con Gesù: ”non hai voluto né sacrifici, né offerte”. Matteo(9,13) gli fa pronunciare un’espressione radicale in merito:” misericordia voglio e non sacrifici”. Indubbiamente nell’inconscio collettivo può sempre riemergere l’antico concetto: ”placare Dio con il sacrificio”. E se non si fa attenzione anche nella messa attuale ci capita dentro pari pari. ”La messa è il sacrificio della croce, nel quale Gesù ha espiato il peccato di Adamo e dell’umanità e ci ha riconciliato con Dio Padre”. L’idea non è barbina se ancor oggi certa stampa cattolica e certe radio Marie (circa 3 milioni gli ascoltatori), diffondono questa dogmatica, mistica del dolorismo, pena imminenti catastrofi e fine del mondo. Nessuno qui vuole mettere in discussione l’importanza e il significato della cena del Signore. Ma che Dio voglia o abbia voluto la morte di suo figlio innocente per salvare una massa dannata dal peccato di Adamo, dei suoi discendenti, di noi compresi, dobbiamo ammettere che tale regressione è opera di un teologo del 1200, certo Anselmo di Canterbury. Questi ritornava all’antico, all’immaginario collettivo nel quale tutti i popoli avevano considerato i loro dei alla stregua delle bramose autorità terrene e ritenevano necessario conquistare la benevolenza e la protezione loro con suppliche, donativi, offerte, spargimento di sangue degli innocenti. Rigurgiti che oggi si introducono nella sacralizzazione della sofferenze come grazia di Dio, piuttosto che una carenza da combattere, come in effetti fu tutta la vita di Gesù a beneficio del prossimo, quale immagine di Dio. Misticismo bolso quello che trapela e scende anche da qualche pulpito: “Dio fa soffrire quelli che ama”. Allora: Gesù morto per dare lode ed espiazione al Padre e così redimere tutti noi? Certo, morto non per sottrarci da una corrucciata ira divina bensì per liberarci dalle nostri passioni distruttive, per insegnarci che se non si paga di persona non si può delegare nessun altro. Non sono questi pensieri tanto peregrini, ma contributi di teologi contemporanei, quali Ortensio da Sp. , A. Maggi, A. Pagola e innumerevoli altri. Non si immola nessuno e non ci si immola nessuno per la divinità, ma per il bene, per la dignità e per la felicità dei propri simili: ed è lì che si incontra e si da’ lode alla divinità, facendo un pezzo di strada con colui, Gesù, che ha detto (Giov.10,10):” sono venuto perché abbiate la vita e l’abbiate in abbondanza.”

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Albino Michelin
01.06.2018

domenica 10 giugno 2018

DIFFICILE IL PERDONO, PIÙ DIFFICILE VIVERE IL PERDONO

Ogni Anno il 25 aprile si celebra l’anniversario della Liberazione, avvenuta al termine della seconda guerra mondiale, il 25 aprile 1945 appunto. Una memoria, sconosciuta ormai ai giovani che la confondono con il giorno della libertà, ma ancora ricordata dagli adulti che tende a dividere l’Italia anziché unirla, in quanto si arrischia di portare alla ribalta la lotta dei partigiani vincitori contro i vinti connazionali aderenti al Fascio, un periodo di odi, rancori, crimini, eccidi, e disgraziatamente non da una parte soltanto. Sembra qui opportuno riportare fra i tanti un gesto trasmesso dalla TV 2000 il 25 aprile del 2017, dal tiolo “Siamo Noi”, che rievocava una riconciliazione pubblica avvenuta il 3.2.2017 a Schio, città del vicentino, fra il partigiano Valentino Bortoloso (detto Teppa, classe 1923) e Anna Vescovi (classe 1943), figlia di Giulio, allora podesta’della Repubblica fascista. Un breve cenno all’origine dei fatti, prima di descrivere il percorso che ha condotto a questo epilogo, percorso durato ben 72 anni. La guerra era terminata da due mesi, quindi non valeva la pena continuare nelle vendette private. Ma a Schio non fu così, come forse in altre parti. Il Comando partigiano tentò di individuare i precedenti nemici, loro familiari e aderenti, giorno dopo giorno li imprigionò nelle carceri mandamentali, nella notte fra il 6-7 luglio da due mesi cessate le ostilità agli ordini del Teppa si fece irruzione, quattro minuti di crepitar di mitraglie 54 persone, donne, uomini, bambini, anziani sterminati, cui seguì un silenzio sepolcrale. Fra i giustiziati anche Giulio Vescovi di 35 anni, padre di Anna, allora di due ani e mezzo. Per i partigiani e loro militanti un atto dovuto, per le vittime e familiari un atto ignominioso e vile. E odio cova ancora sotto la cenere. Ogni anno allorché nel duomo della città si celebra una messa per i deceduti, da una parte del tempio prendono posto i vincitori, dall’altra i vinti. Equando il prete annuncia:” scambiatevi un segno di pace”, nessuno fa un passo. Il tempo qui e in troppi casi non è medicina. Ma la piccola Anna, man mano che cresceva, attraverso vicende personali, familiari, professionali rielaborava dentro di sé confusamente e dolorosa mente queste esperienze, tentando inutilmente di rimuoverle. La mancanza del padre, la sua eliminazione brutale, la memoria funesta che spesso si ripeteva nelle pubbliche contrapposte manifestazioni di piazza, le procuravano enormi contraddizioni e pressioni psicologiche. I suoi contatti con la chiesa, le relative istituzioni e gruppi non l’avevano accompagnata più di tanto, per cui essa anziché nella chiesa cattolica con i suoi riti ripetitivi e dogmi, trovò soluzioni e consolazioni nella spiritualità e nel suo misticismo, più adeguati ad elaborare alla radice la sofferenza umana. Nel 2005, in occasione del 50.mo anniversario, si tentò di sottoscrivere in città un atto di concordia fra le famiglie delle due opposte fazioni, ma senza tangibile risultato. Soltanto quando nel 2016 il Ministero della Difesa insignì Valentino Bortoloso (detto Teppa) di una medaglia al valore per la liberazione, riconoscimento da lui stesso bene accolto, la lama si riconfisse ancora nella piaga, il buon senso popolare reagì ed il Ministero fu costretto a ritirargli l’emblema. Ciò sconvolse ancor di più il mondo interiore di Anna Vescovi, la quale maturò l’idea di incontrare l’assassino di suo padre, non più come tale, ma nel suo volto umano, aiutata in questo anche dalla sua professione di psicoterapeuta. E ripensò:” va distinto il crimine dal criminale, non è vero’ che un assassino non può diventare una persona normale, non è vero che noi non possiamo essere diversi da ciò che siamo stati.” Non riusciva ad accettare di essere identificata e odiata da chi aveva odiato suo padre. Non riusciva a pensare che qualcuno potesse stare tranquillo odiando un proprio simile. L’odio ti acceca, ti toglie la luce dagli occhi, ti fa male al cuore, ti uccide interiormente e spiritualmente. Ma anche l’odio può avere una sua evoluzione. Così nell’ottobre del 2016 Anna scrisse a Valentino chiedendogli un incontro personale ed un gesto di riconciliazione pubblica. Questi accettò l’incontro privato nel quale fissarono l’incontro pubblico a Schio per il 3.2.2017. Mossi dallo spirito di quel salmo biblico che dice:” misericordia e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno” e dalla convinzione che “c’è un Altro che ci guida” manifestarono la loro riconciliazione pubblica invitando il vescovo della diocesi, quale rappresentante di una chiesa comunità che predica il perdono, gesto anche ripreso e trasmesso anche dalla TV. Che nel caso non aveva l’obbiettivo di una pubblicità mondana, del culto dell’immagine alla Grande Fratello, ma quale testimonianza di un messaggio di riconciliazione che dovrebbe attraversare la pelle di ognuno. Il testo letto da Anna Vescovi e affidato agli ascoltatori, alla stampa e ai media suona cosi”: Noi, Valentino Bortoloso, partigiano e uno degli esecutori materiali dell’eccidio contro il fascismo, avvenuto nella carceri di Schio il 7 luglio 1945, che oggi possiamo considerare inutile e doloroso, e Anna Vescovi figlia del podestà di Schio, morto in questo stesso eccidio, e unici testimoni diretti, consapevoli che è giunto il momento di pacificare le tragiche contraddizioni della stessa storia di 72 anni orsono, con grande atto di coraggio da entrambi le parti ci siamo incontrati in un commosso abbraccio di grazia e di perdono…” Testo che andrebbe letto in ogni manifestazione del 25 aprile. Da augurarsi che fra tanti gossip in circolazione Anna Vescovi pubblichi un libro anche su questo tipo di percorso interiore: può essere un seme di speranza.

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Albino Michelin
25.04.2018

giovedì 7 giugno 2018

DIMESSI IN BLOCCO I 34 VESCOVI DEL CILE

Mai nella chiesa è accaduto che l’intero episcopato di un Paese si dimettesse. E’ accaduto da parte dei vescovi cileni il 18 maggio u.s. in occasione di una vertice tenuto in vaticano, al quale Papa Francesco li aveva convocati. Preme qui sottolineare non tanto il fatto sensazione di cronaca, quanto e soprattutto il modo di affrontarlo. L’origine di questa specie di terremoto la conosciamo tutti. Si tratta della ripetuta e non risolta né scomparsa pedofilia del clero, e del suo frequente occultamento da parte dell’autorità superiore, dell’episcopato appunto. L’intervento è la conseguenza della visita che Bergoglio aveva fatto in Cile ai primi di aprile di quest’anno, in occasione della quale aveva anche sollecitato un colloquio con alcune persone tempo addietro abusate per anni da P. Ferdinando Karadina, considerato santo e formatore di preti e vescovi, alla fine risultato vero abusatore seriale. Come sempre accade inizialmente le vittime erano state dall’entourage ritenute non credibili, addirittura allontanate. Uno dei vescovi, Mons. Barros, era stato accusato di insabbiamento dei documenti e di copertura dei responsabili. Anche il Papa in aereo di ritorno verso Roma era stato dai giornalisti incalzato sul fatto di avere istintivamente difeso il Barros, sostenendo che in questi casi non bastano illazioni, occorrono prove. Prove che poi nel giro di un mese sono state raccolte ed esibite. Qui si chiude la notizia e si apre qualche considerazione. Nella vita non ci deve meravigliare del peccato, del crimine, o di una persona e di noi uomini che dentro ci caschiamo, quanto il modo di affrontarli, di riconoscerci, di prendere i dovuti rimedi. Quindi quello che qui nella fattispecie ci interessa è l’autoconfessione. Del Papa anzitutto che chiede scusa: ”ho sbagliato, anche per affrettate informazioni, di chiedere le prove alle vittime”. Non ha importanza qui se il fronte antibergoglio ha alzato testa e cresta e suonato le trombe. In secondo luogo l’autoconfessione di 34 vescovi che rimettono il mandato. Al di là delle nostre diplomazie, del tutti colpevoli e tutti innocenti, del male comune mezzo gaudio, il gesto fa riflettere in un mondo che ha smarrito il senso delle proprie responsabilità e della coscienza collettiva, e non solo nell’ambito della pedofilia, piaga assai più comune nelle famiglie e in tutti gli strati sociali. Papa Francesco non fa l’inquisitore, non va alla caccia delle streghe e dei colpevoli, di capri espiatori, ma va alla radice del problema mostrando quanto la malattia fosse diffusa, e frutto di decine di anni di nomine episcopali selezionate secondo cordate, preferenze e referenze vaticane. Non fa l’angelo sterminatore, ma si pone in atteggiamento penitenziale necessario per la tutela dei minori e perseguire quanti si macchiano di tali colpe. E aggiunge sempre: ”alle vittime ho chiesto di cuore perdono”. Ma significativa è anche la pubblicazione del documento emanato dai 34 vescovi che suona: ”con questa dichiarazione chiediamo perdono per il dolore arrecato alle vittime, al paese, al popolo di Dio e per i gravi errori e omissioni, intendiamo ristabilire la giustizia, contribuire alla riparazione del danno, desideriamo che il volto del Signore torni a risplendere. Chiediamo a tutti di aiutarci a percorrere questa strada. Con ciò abbiamo maturato l’idea che fosse opportuno dichiarare la disponibilità a rimettere i nostri mandati.” Certo all’inizio del vertice vaticano Bergoglio aveva distribuito a tutti questo testo o uno similare, ma ciò che meraviglia è la pubblica confessione, dichiarata al mondo intero. Indubbiamente il papa può accettare le dimissioni, può sospenderle, può renderle operative alla scelta dei successori. Al limite non è che “tutti e singoli” siano responsabili degli occultamenti del reato di pedofilia. Ma qui si da’ un bell’esempio di passaggio dalla casta alla comunità solidale e penitente. Si rende operativo il detto dalla Bibbia:” confessate a vicenda i vostri peccati”. (Gc.5,16) In effetti a che serve riferire al prete in confessionale, fra quattro pareti blindate, i propri peccati in privato e poi in pubblico continuare con la catena di soprusi? La grandezza morale di una persona, che sia religiosa, laica, politica, dignitaria non sta nel gonfiare il petto di onestà ipocrita e bolsa, ma nell’ammissione della propria realtà, e della propria debolezza. Papa Francesco e i vescovi cileni non si sono barricati sdegnosamente nei loro santuari accusando le forze sataniche, gli anticlericali, i massoni, i pretifaghi o mangiapreti che la chiesa è sempre stata e sempre sarà bersaglio del fumus persecutionis. Magari dimenticando la sincerità della chiesa dei primi secoli che si autodefiniva casta meretrix. (S. Ambrogio di Milano). Questo, nel contesto degli ultimi 5 anni di Papa Francesco, è coraggio, trasparenza, ritorno ad un Vangelo autentico. Si sente spesso dire che la chiesa è nostra madre e della propria madre non si parla mai male. O anche la chiesa è Dio, la chiesa ha sempre ragione. Facciamo distinzione di tempi e luoghi, nessuno parla male della chiesa di madre Teresa, della chiesa dei missionari religiosi e laici del terzo mondo, di generosi cristiani protestanti come lo zurighese E. Sieber da poco deceduto e di un elenco infinito. Questo dei vescovi cileni non è un semplice fatto di cronaca ma un vero evento di testimonianza morale ed etica, in un mondo in cui tutto è liquido, relativo, astuzia, nessuna distinzione fra bene e male. Qui la chiesa non si impone come maestra, giudice infallibile dell’operato altrui, atteggiamenti che spesso hanno dato e danno allo stomaco, ma come discepola del Signore e del suo Vangelo. Per cui ti può anche invogliare, può legittimare a ciascuno la sua eventuale appartenenza.

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Albino Michelin
31.05.2018

mercoledì 6 giugno 2018

LA SANTISSIMA TRINITÀ: POTENZA E MAGIA DEL NUMERO TRE

Nella storia degli uomini il numero 3 ha sempre avuto un ruolo importante. Anzi nella storia personale di ciascuno esso è profondamente radicato e interiorizzato a tutti i livelli, intellettuale, emotivo, culturale, religioso, letterario. Tanto da farne una cabala del destino. Pitagora, il matematico greco-tarantino (+ 495 a.C.) lo spiegava con il fatto che il numero 2 rappresenta il pari, l’1 il dispari, il 3 la sintesi. Il 2 separa, (uomo-donna), il 3 unisce (uomo-donna figlio). E qui le esemplificazioni sono infinite. A ben osservare la triade è alla base di tutto, quando si vuole spiegare agli altri o spiegarsi le realtà più complesse si pone come base inconscia il numero tre. Il filosofo Aristotele aveva inventato il sillogismo, dimostrazione stringente su tre parti: a) premessa maggiore. b) premessa minore. c) conclusione. Esempio attualizzato: a) tutte le nazioni hanno un confine. b) l’Italia è una nazione, c) quindi anche l’Italia ha i confini. Triade abbiamo pure nei nostri tribunali: accusa, difesa, giudice. Per i cinesi 3 è il numero della totalità Cielo, terra, umanità. Nell’astronomia il sole ha 3 parabole: alba, meriggio, tramonto. Nella Bibbia abbiamo una dovizia di numeri 3. Tre sono le porte del tempio, tre i figli di Noè, tre i giorni delle tenebre in Egitto prima dell’esodo degli ebrei, tre i giorni di Giona nel ventre della balena. Tre i re Magi alla grotta del bambin Gesù. Tre i testimoni della trasfigurazione del signore sul monte Tabor, tre i giorni di Gesù nel sepolcro, tre i componenti della sacra Famiglia in terra: Maria Giuseppe Gesù, tre i componenti della Famiglia divina in cielo: Padre Figlio Spirito Santo. Tre le virtù teologali della perfezione umana: fede, speranza, carità. Tre i passaggi dei mistici nelle loro esperienze interiori: purificazione, illuminazione, unione con la divinità. Il nostro sommo poeta Dante ha strutturato la Divina Commedia, il suo capolavoro immortale su tre luoghi post mortem: paradiso, purgatorio, inferno, trentatré la cantiche in versi terzine, tre le fiere che il poeta incontra nella selva oscura, tre le persone che dal cielo corrono in suo auto: La Vergine, Lucia e Beatrice. Nelle fiabe dei romanzieri tre sono le prove che l’eroe deve superare. Giulio Cesare al ritorno dalle Gallie (55.a.C.) celebrò il suo trionfo con tre autoelogi; venni, vidi, vinsi. Anche nel genere musicale il numero tre fa bella comparsa. Puccini nella Turandot, brano “Nessun dorma “fa brillare tre volte il suo tenore: “all’alba vincerò, vincerò, vincerò” E Rocco Granata vuole più presto sposare tre volte: Marina, Marina, Marina. Non andiamo poi ai proverbi popolari, pieni di sapienza e in genere ternari:” tre cose non tornano più indietro e più richiamar non vale: la freccia scoccata dall’arco, voce dal sen fuggita, e l’occasione perduta”. Tre sono le saggezze della vita e senza limiti: il cielo con le sue stelle, il mare con le sue gocce, il cuore con le sue lacrime. Pure le scienze moderne della psicologia presentano l’uomo in ternario: spirito, mente, corpo. E Freud nella psicanalisi struttura l’uomo a tre piani: inconscio(es), la coscienza(l’io), l’autorità (il super-io). Ma quello che nel senso di questo articolo potrebbe interessare è il tre nell’ambito religioso. Le grandi culture e religioni sin dall’ antichità venerano il numero tre come divino e sacro. Mitologia indù: Brahma (creazione), Wihsnu (conservazione), Shiva (distruzione). Mitologia egiziana: Iside padre, Osiride madre, Horus figlio. Mitologia greca: Giove, Poseidone, Ade. A questo punto qualcuno si chiederà: ma come sono questi tre giorni durante i quali Gesù rimase nel sepolcro? Alla lettera tre giorni significano 72 ore. Ma Gesù sepolto è rimasto solo 32 ore o qualcosa di più (dal pomeriggio del venerdì santo ore 17 fino all’alba della domenica di Pasqua). E qui la fede non si perde se si da’ all’affermazione un valore simbolico (da non confondere con leggendario): numero tre significa perfezione, completezza. Gesù è risorto, cioè da Dio glorificato allorché, ha compiuto totalmente e perfettamente la missione della sua esistenza. Tutto questo ci richiama infine al grande mistero della Santissima Trinità, un Dio in tre persone, Padre, Figlio, Spirito Santo. Che è? Politeismo, un panteon di divinità, rivelazione divina, esoterismo? Linguaggio dei concili di chiesa dei primi tre secoli? Quando si recita il Credo noi ripetiamo parole che al tempo della filosofia greca avevano tutt’altro significato. Non bisogna dimenticare che anche le parole hanno una loro evoluzione e vanno quindi situate nel contesto del tempo. Indubbiamente la recita del Credo presenta una terminologia difficile come “Gesù unigenito figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli, generato non creato, della stessa sostanza del Padre, credo nello Spirito santo che procede dal Padre e dal Figlio…” Quando davanti alla Basilica della Natività di Betlemme si sente ripetere dagli ebrei e dai musulmani che Dio non ha figli, si rimane non tanto nel dubbio ma certo nella difficoltà di intendersi. Usiamo le stesse parole con lo stesso significato? Qui nessuno vuole farci perdere la fede e depennare un dogma ma ci si può accontentare di una spiegazione più empatica, vicina alla nostra esperienza e sete del divino, cioè: Dio è uno, autore e provvidenza della nostra vita (padre), è relazione personale con noi (figlio), e ci infonde entusiasmo nella vita (Spirito Santo). Questo non è un liquidare la Trinità, ma renderla più accessibile. Versione attuale, quale potenza e magia del numero 3.

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Albino Michelin
22.05.2018

domenica 3 giugno 2018

VARIAZIONI SULLA FESTA DELLA MAMMA

Al di là del fatto che il giorno della mamma venga festeggiato nel mese di maggio, fa riflettere come la figura della madre oggi presenti tali e tante varianti da impegnare oggi giorno dell’anno per darle un volto, tanto essa si è evoluta ed è in continua evoluzione. Sappiamo che dalla preistoria lo stesso Dio veniva adorato come Dea madre terra, in quanto simbolo della fertilità e dei doni della sussistenza. Anche presso i greci avevamo la Dea Rea Silvia, e presso i romani la Dea Cibele, pure a protezione della primavera e garanti della fertilità. Storicamente la festa della mamma la seconda domenica di maggio è sorta negli Usa nel 1914 per iniziativa del presidente Wilson e in Italia nel 1957. Da noi si disse per festeggiarla nel mese della Madonna, ma oggettivamente bisogna dire che non ha nulla a che vedere con questa devozione. La madre è ovviamente inserita nella famiglia, ma già qui iniziano le difficoltà tante sono oggi le sue varianti. Famiglia patriarcale, famiglia sacramentale quella degli sposati in chiesa, famiglia delle coppie civili, dei divorziati, dei separati, dei conviventi, degli accasati temporanei, una costellazione. Come una costellazione è quindi il mondo delle mamme. Madre biologica, madre surrogata, madre adottiva, madre a prestito, madre con fecondazione artificiale, madre con utero in affitto. Abbiamo anche i mammi, coppie di gay che allevano un bambino, e avanti. E questi non accettano di essere schifati altrimenti vi dimostrano che amano i bambini più che certe madri e padri sfascia famiglie. Premesso questo quadro iniziale ci limitiamo a sottolineare l’essenziale della genitorialità e più in particolare della maternità. Anzitutto oggi si costata un calo di natalità e non tanto per il fatto che diminuisce la stessa fertilità non solo delle femmine (sempre colpa loro) ma pure dei maschi, causa lo stress e il tipo di lavoro. Il calo è dovuto anche alla non volontà di generare, o di generare in età avanzata dopo i trent’anni, addirittura verso la quarantina quando, comincerebbe l’età dei nonni. Ricordo di due signore, ad una recente festa di paese, con le quali si istaurò questo discorso. Mi dissero :”caro lei, non si tratta di questione finanziaria, che ci mancano i soldi, che non si puo’ arrivare a fine mese, il precariato dei giovani e tante storie, noi due andiamo verso la quarantina e ad essere sincere preferiamo vivere la nostra vita, le ferie a Majorca, conoscere il mondo, la libertà, i figli pesano. Il resto sono ciance.” Certo non bisogna generalizzare, ma qui c’è parecchio del vero. Un secondo aspetto: un figlio andrebbe preparato e voluto. La coppia deve parlarsi prima, e se per caso capita non programmato e voluto bisognerebbe ricordare la frase di S. Agostino: se non sei chiamato, fai in modo di essere chiamato. Voleva dire che se ti capita un fatto inatteso e inaspettato fa in modo di riprogettarti e accettare la situazione. Non si tratta di far buon viso a cattivo gioco, ma di assumersi le responsabilità della vita. Vi potrebbero essere mamme che risolvono tutto con l’aborto. In verità questo intervento sul feto è oggi di molto in diminuzione. Se pensiamo che nel 1978 al tempo dell’approvazione della legge in materia avevamo in Italia 200 mila aborti all’anno in confronto al 2016 calati a 85 mila, dovremmo concludere si tratti dell’effetto dei contracettivi. Esatto e sinceramente si tratta di un male minore. Anche la Chiesa parla di guerra giusta, cioè piuttosto che una guerra globale è meno peggio una guerra territoriale, limitata. Anche se la guerra è sempre guerra quindi un male da evitare, cosi all’aborto è preferibile usare l’anticoncezionale, perché il primo interviene sulla vita, il secondo no, la previene. E la differenza è enorme. Certo un figlio tollerato sarà sempre sul rischio di diventare il capro espiatorio, come si sente di qualche adolescente, che racconta umiliato delle discussioni di qualche genitore:” ti ho sempre detto con che con questo si doveva fare l’aborto, e tu non hai voluto”. Fondamentale nella maternità è pure il periodo della gravidanza. Il periodo in cui si forma l’inconscio del bambino, evitando strapazzi, stress, traumi, litigate. Un periodo di tranquillità psicologica e anche spirituale è di grande vantaggio. Essendo noi energia spirituale, il feto la recepisce anche nella gestazione comunicata dalla madre. Il caso di quel bambino di tre anni che ripeteva la canzone che sua madre gli cantava durante la gestazione non è certo un miracolo di qualche santo, puo’ essere fenomeno ricorrente. E poi abbiamo i primissimi anni dell’infanzia in cui lì la madre e i genitori si giocano tutto. E’ l periodo in cui il bambino legge sul loro volto il modello di comportamento da apprendere, Il periodo delle regole dettate con amore, evitando la stizza, la fretta, l’approssimazione. Tanti blocchi, complessi, trasgressioni, strade sbagliate dell’età più avanzata in genere hanno origine da questi anni in cui si forma il disegno e il quadro globale etico dell’agire futuro. E poi abbiamo il periodo della socializzazione in cui delle mamme e papà arrischiano di guastare le relazioni umane. Quando si raccomanda al figlioletto di non giocare col bambino negro si costruisce un mondo razzista, fatto di muri e non di ponti. E poi arriva il periodo dell’adolescenza, certo il più turbolento, ma anche una risorsa. L’occasione per garantire educazione, istruzione, formazione. Tante mamme invece ripiegano sul rapporto facile. Sia alla prima comunione come alla cresima, periodo del commiato ufficiale dalla chiesa, regalano ai figli lo smartfone, dove “il dott. Google” li sostituisce in tutto, nel controllo delle amicizie, nell’impegno scolastico, nell’educazione sessuale. Fino al punto che anche a tavola non si riesce più a garantire un dialogo, tutti distratti dalla TV e dal cellulare. Con la conseguenza che i genitori impotenti e frustrati diventano protettivi e proiettivi, inventano lo wahtsapp di gruppo scolastico per malmenare il corpo docente, e se boccia il figlio passano all’aggressione e alle botte. Per questo il psicoterapeuta Galimberti scriveva:” escludere i genitori dalla scuola”. Non bisogna però sempre fare nemmeno le mamme i capri espiatori degli sballi e insuccessi dei ragazzi. Non ostante tutto dicano ad ogni figlio:” sono contento che tu ci sei”. Se non altro si sentirà incoraggiato, non perderà la speranza.

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Albino Michelin
10.05.2018

giovedì 26 aprile 2018

IL REGNO DI DIO: LA PIRAMIDE ROVESCIATA

In genere un articolo si scrive o a scopo di cronaca per raccontare un fatto, o a scopo storico per conservarlo negli archivi, o a scopo morale per mandarlo alla riflessione dei lettori. Un po’ meno per rispondere ad una domanda di una persona che recentemente fece un’osservazione, rara nel genere, concernente una preghiera che si recita dal sacerdote dopo la mezza messa e che suona: ”Ricordati o Padre della tua chiesa diffusa su tutta la terra in unione con il nostro papa… il nostro vescovo… e tutto l’ordine sacerdotale”. E aggiunge: ”qui abbiamo la piramide rovesciata, non si inizia a pregare dalla base, per il popolo, per gli ultimi, per i poveri, ma per quelli che siedono al vertice della gerarchia. Gesù avrebbe incominciato dagli ultimi, infatti si ricorderà l’espressione passata in proverbio, beati gli ultimi perché saranno i primi.” L’osservazione è azzeccata e pone l’accento sullo scopo per cui Gesù è venuto sulla terra. Non certo in primis per essere olocausto gradito al Padre e morire sulla croce allo scopo di riparare il peccato di Adamo trasmesso ai discendenti e così redimere tutti noi mortali. Ma per costituire il Regno di Dio sulla terra. Diciamo “Regno di Dio” e non la chiesa, da Gesù pensata come strumento per testimoniare, divulgare, diffondere il Regno di Dio sulla terra, con tutti i rischi legati agli uomini che vi aderiscono e la compongono. L’equivoco sta nel considerare e nell’aver considerato il Regno di Dio come un regno mondano, un principato, un ducato, una repubblica più o meno presidenziale con al vertice il papato e la curia romana identificata con Dio. Pur considerando la necessità di questa istituzione non va dimenticata la sua funzione di servizio, che se dovesse mancare casca il palco. Si ricordi che quando Pietro spazientito sollecitò Gesù distogliendolo dal morire in croce e invitandolo a costituire il regno d’Israele si sentì rispondere: ”vai indietro da me, satana, tu non sai di che spirito sei.” In questo senso aveva ragione il teologo modernista Loisy (1857-1945) quando affermò che Gesù à venuto a fondare il Regno di Dio ed è nata la chiesa. Chiaro che nulla si vuole togliere al molto bene che essa ha fatto lungo i secoli a beneficio dell’umanità, ma vanno posti i puntini sugli i per evitare che la gente confonda l’essenziale con il secondario. Per giustificare l’asserto va chiarito che Gesù nel tre Vangeli sinottici, Matteo, Marco, Luca parla 120 volte del Regno di Dio e soltanto due volte di chiesa, e questa citata unicamente da Matteo preoccupato com’era di non urtare la sensibilità egli ebrei convertiti al Cristianesimo, la cui educazione era legata alla regalità del tempio, del re Davide e dei sommi sacerdoti. A dire il vero Matteo non usa mai l’espressione Regno di Dio, ma regno dei cieli in quanto per la tradizione di Mosè e degli israeliti era proibito nominare il nome di Dio. Doveroso qualche passo fra i molti che conferma il sin qui detto. Gesù se ne andava per le città e villaggi predicando e annunciando la buona novella del Regno di Dio. (Lc.8,1). I dodici partirono e passavano di villaggio in villaggio annunciando la buona novella e operando guarigioni. (Lc.9,6). Chi non accoglie il Regno di Dio come un bambino non è degno di me. (Lc.9.60). E nell’insegnare come pregare Gesù sottolinea la richiesta: Padre venga il tuo Regno. (Lc.11,2). Nel processo davanti a Pilato dichiara: sì, io sono re, ma il mio Regno non è “di” questo mondo. Intendeva dire “in” questo mondo, ma non nella logica di questo mondo. Difatti Paolo (Rom.14,18), anni dopo la morte del maestro, lo spiega bene sottolineando che il Regno di Dio non è questione di cibo e bevande, ma giustizia, pace, gioia dello Spirito. Il che significa che se si seguisse questa logica non vi sarebbe bisogno di dichiarare, guerre, invasioni, terrorismi, infanticidi, rapine e colonialismi, morti di fame, galere e forche. Quindi nel Regno di Dio non è questione di rafforzare le frontiere, gli arsenali militari, affinare egoismi, escogitare astuzie, ma di rapporti umani, giusti, rispettosi, solidali, capaci di amore e di perdono. E quando Luca (10,11) afferma che il Regno di Dio è vicino, anzi è in mezzo a noi (17,11), dentro di noi, non si tratta di ridurre tutto ad un intimismo personale e individuale, bensì ad una trasformazione che abbraccia la totalità delle vite, delle strutture, delle persone. Gesù che chiama Dio suo padre ci garantisce che il Regno di Dio non viene a distruggere le persone, ma il male dentro di noi che sta alla radice di tutti i soprusi sociali. Gesù non fa appello ad un intervento miracolistico di Dio, ma ad un cambio di rotta, di comportamento interiore dei singoli, che non si effettua con manifestazioni puntuali, ma certo con azioni continuative. Che qualcosa nella piramide rovesciata si stia raddrizzando lo possiamo desumere anche dal un bel documento del Concilio Ecumenico 1965 ”Lumen gentium, Luce delle genti”, che al primo capitolo apre col proposito di Dio di ricondurre tutte gli uomini al suo Regno, al secondo mette in risalto il valore del popolo di Dio, solo al terzo affronta il ruolo della chiesa e della istituzione gerarchia. E papa Francesco nella sua ultima esortazione apostolica, “Gaudete et Exultate”, corposo fascicolo del 19.3.18 al nr.14 ricorda che per essere santi non occorre essere vescovi, sacerdoti, religiosi, quelli che mantengono le distanze dalla vita ordinaria, ma è una chiamata rivolta e possibile a tutti indistintamente. Da cui ne consegue che continuare a mettere sugli altari papi e clero sarebbe un privilegiare la casta, il papato, il vertice della piramide a scapito degli innumerevoli giusti anonimi di tutti i tempi, la base. La riforma quindi anche delle preghiere della messa per stare all’osservazione dell’interlocutore iniziale, sarà un processo lento, ma rappresenta già un seme di speranza.

Autore
Albino Michelin
24.04.2018

lunedì 23 aprile 2018

L'ESISTENZA DELL'INFERNO: UNA BUFALA CATTOLICA?

Un bel pastrocchio ha messo in piedi il quotidiano “La Repubblica” quando il direttore Scalfari divulgò in un articolo il colloquio del 29.3.2018 con papa Bergoglio il quale alla domanda sull’esistenza dell’inferno avrebbe risposto che come Adamo ed Eva sarebbe una metafora così l’inferno, cioè che la anime dei dannati non soffrirebbero in eterno il fuoco inestinguibile ma verrebbero distrutte. A dire il vero fra smentite e chiarifiche non si è mai capito realmente il pensiero del papa espresso nell’occasione, ma i giornali di stampo cattolico si sono subito allertati a censurare il tutto e definirlo uno scoop sensazione, e se fosse così avvenuto si tratterebbe di una papa eretico. I giornali laici d’altra parte sollevarono il polverone non tanto per la negazione di un dogma cattolico, cui loro non importa un bel niente, quanto per l’invidia verso chi ostenta amicizie concorrenziali di prestigio. Ma in fondo al credente comune interessano poco queste schermaglie: questo inferno esiste o non esiste? Eterno o temporaneo? Con il fuoco materiale o come cocente afflizione spirituale di chi ha perso un amore? Bibbia alla mano, è vero che Gesù parla più volte di un post-mortem con stridore di denti e di supplizio eterno per i peccatori. Resta aperta la domanda: si tratta di descrizione oggettiva o di genere letterario? Si sa infatti che di linguaggi letterari è piena la bibbia. Un rischio prendere tutto alla lettera. Come Dante che ti descrive l’inferno macchina di torture, campo si sterminio modello Auschwitz. Notevoli interpreti sostengono che le “minacce” di Gesù gli sono state messe sin bocca e aggiunte dopo 40-50 anni dalla sua morte, allorché le comunità specie quella dell’evangelista Matteo avevano perso lo slancio primitivo e registravano deviazioni. Come si usava negli anni passati in certe famiglie quando si minacciavano i bambini: ”fai il bravo se no ti caccio in cantina dove l’orco ti mangia.” Ed ecco anche nel Vangelo una minaccia pedagogica: alla fine del mondo pecore alla destra verso il paradiso, capre alle sinistra destinate al fuoco della geenna (Mt.25,41). Certo Gesù parla di fuoco della geenna. Ma si riferiva alla valle dell’Himmon, situata nella bassa Gerusalemme, luogo di discarica, dove il fuoco permanente bruciava rifiuti, cadaveri e carogne di animali. Domanda come fa un fuoco materiale bruciare esseri spirituali? Ovvio, genere simbolico letterario. Nulla capiva di questo certa Maria Tudor(1516-48) regina cattolica “la Sanguinaria” d’Inghilterra che mandò al rogo 300 protestanti sostenendo, dato che dovevano bruciare in eterno nell’aldilà, lei anticipava la vendetta divina bruciandoli anche nell’aldiquà. E’ bene precisare che nella Bibbia dell’antico Testamento la parola inferno veniva tradotta con sepolcro e tomba, non luogo di tormenti psicofisici. E l’Ecclesiaste(9,5) scrive: ”i morti non sanno nulla.” Altri interpreti sostengono che l’espressione “eterno” non significa tempo senza fine, ma tempo di forte intensità espiatrice, che pare senza fine, ma non lo è. E qui subentra un’altra schiera di teologi cattolici il quali sostengono la cosiddetta “Opzione finale “per cui, subito dopo la morte vi sarebbe una prova d’amore o di rifiuto cui Dio sottoporrebbe il defunto, il quale vedendo Dio in tutt’altra luce non potrebbe non aderirvi. Ed ecco perché altri parlano d’inferno vuoto. Fra le innumerevoli, significativa è l’affermazione del teologo, prediletto da papa Wojtyla, Urs von Balthasar (+1988) che al meeting di Comunione e Liberazione, popolo eletto del cattolicesimo, il 30 agosto 1984 proclamò: ”L’inferno è vuoto”. La controparte sostiene che non sarebbe Dio a mandare all’inferno, ma sarebbe l’uomo che con la sua libertà e il cattivo uso della stessa si autocondannerebbe. Dio non fa che rispettarlo. A cui si potrebbe rispondere: allora non veniteci a parlare che la vita è sacra. Se dopo 70-80 anni di esistenza biologica è messa in tale rischio, e gli uomini precipiterebbero all’inferno a mucchi, come pare ci dicano i veggenti di Fatima e altri apocalittici, allora molto meglio è che l’umanità si estingua subito, che le coppie non mettano al mondo figli, così non rischiano per loro il patatrac completo e senza via di scampo. Gesù ha detto (Giov.0,10):” sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza”. E che significa? In abbondanza temporanea di qua e in perdizione eterna di la? Di fronte alla serie di questi interrogativi mi permetto una personale opinione: Gesù non può essere un venditore di fumo e un incoerente. In effetti (Luca 17.4) a chi gli domanda: ”Signore quante volte devo perdonare a mio fratello? Sette volte?” e Gesù risponde: “non sette volte, ma settanta volte sette”, cioè sempre e senza limiti. Dal momento che Gesù definisce Dio giusto, cioè coerente e fedele con le sue affermazioni, allora non può odiare per tutta l’eternità anche chi l’avesse offeso o chi fosse stato un delinquente. Una chance, o come dicono le religioni orientali, un karma, una purificazione ed una possibilità di ricupero e di redenzione va data ad ogni uomo, qualunque sia il suo passato. Dio non può aver messo al mondo miliardi di persone per ricevere come un satrapo solo i loro omaggi e genuflessioni, ma perché alla fine il suo amore si partecipi e si condivida con tutti. Qui non si tratta di essere catto progressisti, ma realisti, ragionare con una logica che benché umana potrebbe rispecchiare la logica di Dio.

Autore
Albino Michelin
18.04.2018