sabato 27 ottobre 2018

PROFESSIONE COME VOCAZIONE

Il caso di Erika divenuta Suor Caterina di Gesù non è né unico, né raro. Una ragazza moderna, ex giocatrice di pallavolo, laureata in medicina, amante delle compagnie giovanili e delle escursioni, per due anni in Africa con attività di chirurgo, fidanzata con un ragazzo della stessa professione, improvvisamente, o così può sembrare, rivela in famiglia di essere stata toccata dalla chiamata di Dio, di essere serena solo quando incontra Gesù, al ragazzo confessa di non poterlo rendere felice, insomma dal detto al fatto a 44 anni entra in clausura presso le monache “Benedettine murate” in una città del nord Italia. Fatto recente che si presta alle più svariate considerazioni. ”Ma che cosa ci guadagna a rinchiudersi in convento, con tutto il bene che c’è da fare in questo mondo, con la sua passione per l’Africa così carente di cure e di assistenza, che bisogno ha Gesù di una sepolta viva in adorazione perpetua davanti al suo tabernacolo”. Opportune qui alcune riflessioni sulle vocazioni maschili e femminili, sulla missione degli esseri umani, sulle varie professioni, sulle preferenze ed elezioni da parte di Dio, di fronte al quale invece tutti siamo uguali e alla stessa griglia di partenza. Nel senso che tutti siamo chiamati da Lui sia pure con doni diversi. Troppa carne al fuoco che si può semplificare riducendo all’essenziale. Premessa importante è che una persona si senta gratificata di stare sulla terra. Per gratificata non intendiamo felice, fortunata, grondante denaro e successo. Erika non è una egoista, una misantropa, una scansafatiche, una rifiutata né una prediletta da Dio, ma una che si sente realizzata solo dando spazio alla propria interiorità. Dio non ha bisogno di lei, o di toglierla dal mondo, è lei che ha bisogno di Dio attraverso questo tipo di scelta: il ritiro in convento. Non si vuole qui deprezzare la vocazione intesa nel senso tradizionale come la chiamata di Dio al suo servizio. Diremmo solo che è riduttivo sacralizzare l’affermazione. Indubbiamente nella bibbia, nelle religioni, nelle vite dei santi si parla spesso di “voce” di Dio, ad un singolo o ad un popolo. Così Abramo per voce di Dio parte dalla sua terra ed emigra, Samuele nel sonno viene svegliato dalla voce di Dio per diventare profeta in Israele, Giuseppe nel sogno sente attraverso l’angelo la voce di Dio di prendere Maria come sua sposa, tante donne sentono la voce di Dio che il bimbo nel loro grembo sarà destinato a grandi prodigi, Luigi Gonzaga e Domenico Savio da giovinetti sentono la voce di Dio a diventare santi. Non facciamo qui del psicologismo, indubbiamente può trattarsi di ispirazioni, di improvvise decisioni, di illuminazioni interiori, di allucinazioni, originate da situazioni casuali, incontri, pressioni ambientali, disgrazie, successi, insuccessi. Se Dio c’è, come è nella fede di molti, può servirsi di tutte le più svariate forme, anche delle più quotidiane e naturali. Tralasciamo qui il caso specifico impellente ai nostri giorni, delle vocazioni al sacerdozio: una caduta a picco. E’ un aspetto parziale e settoriale della vocazione universale di ogni uomo, che non è chiamato a farsi prete ma ad esercitare una professione, nessuna superiore o inferiore all’altra, ma solo diversa. Qui ci può entrare benissimo il discorso sul rapporto vocazione professione. In tedesco per le due viene usata un unico vocabolo con la stessa radice: ”Beruf”. Nel gergo comune vocazione richiama l’immagine di chi si consacra alla vita religiosa per l’eternità, il dedicarsi interamente a Dio o al prossimo. Professione invece richiama competenza, produttività, riconoscimento sociale, condizionata da fatti esterni alla persona e con scadenza a termine. Ma si può partire anche da una domanda volutamente provocatoria: al di là del prete, nel caso un medico, un infermiere, uno psicoterapeuta si sente dedicato ad una professione o ad una vocazione? A rifletterci oggi la maggioranza tende a rispondere: una vocazione. E sarebbe opportuno approfondire i termini perché ne guadagnerebbe il mondo se la vocazione venisse vissuta come professione, cioè con competenza. E se la professione come una vocazione, cioè con un’adesione profonda, una messa a disposizione del nostro potenziale interiore nascosto, capace di indirizzare le nostre migliori energie a quel lavoro. E’ quanto intendeva Calvino (+1556) quando sosteneva che ogni professione è vocazione. Che poi l’intuizione l’abbia portato un po’ troppo lontano, a sostenere che il lavoro rende lode a Dio, e che ogni arricchimento proveniente dal lavoro è segno della benedizione di Dio, facendosi passare protestante antesignano del capitalismo. Queste sono esagerazioni possibili: da un principio esatto, applicazioni esagerate. Però non andrebbe smarrita l’idea di fondo, che cioè bisognerebbe riuscire a laicizzare di più la vocazione, e spiritualizzare di più la professione. Facendo attenzione alla vocazione che dovrebbe precedere ogni professione e costituirne il fondamento, che non è conseguibile attraverso un diploma, ma attraverso l’ascolto di ciò che sgorga dal nostro maestro interiore. Però non voliamo troppo alto. In pratica quando è possibile che la professione sia vissuta come vocazione allorché abbiamo un’infinità di precari, di disoccupati, di gente che deve accontentarsi di un lavoro qualsiasi lontano dalle loro aspirazioni e capacità? O d’altra parte, quando abbiamo centinaia di scansafatiche, che una professione non la vogliono e si fanno passare come disabili, e vivono sulle spalle altrui sfruttando il lavoro e i sacrifici del prossimo? Sull’argomento ampliamo la visione: Dio ha creato il mondo, ma l’ha lasciato incompleto. All’uomo il compito di completarlo attraverso le più svariate vocazioni e professioni: dal chiostro come la Erika, dove si produce e si comunica a noi, attraverso la preghiera, energia spirituale. Dal sacerdozio con preti e missionari da Gesù desiderati quali “pescatori di uomini” per alimentare in noi il rapporto con il Trascendente. Dalle professioni umanitarie per garantirci una serenità di vita, a quelle specificatamente tecniche e produttive per acquisire maggiore dignità e giustizia sociale. Vocazione o professione? Nessuna differenza, basta fare tutto con passione.

Autore
Albino Michelin
31.09.2018

venerdì 26 ottobre 2018

MA NOI QUANTI ANNI ABBIAMO?

Molti di noi restano confusi quando sentono parlare del tempo della creazione del mondo raccontato dalla Bibbia e quello del suo inizio insegnato a scuola e dalla scienza. Per chiarezza ripartiamo dal testo della Bibbia, genesi capitolo primo. Dio avrebbe creato il primo giorno la luce, il secondo giorno il firmamento, il terzo giorno la terra e le acque, il quarto giorno la luce e le stelle, il quinto giorno i pesci e gli uccelli, il sesto giorno l’uomo Adamo col fango della terra, la donna Eva traendola della costola di Adamo. Il due disubbidirono al divieto di Dio di mangiare il frutto proibito, la mela, e furono cacciati dal paradiso terrestre, tirandosi dietro castighi, sofferenze, morte per tutti i loro discendenti (Episodio chiamato peccato originale, cioè delle origini). Nel medioevo si datava persino l’età di questo evento, 5 mila anni. In effetti anche nelle scuole superiori di teologia di 50-60 anni fa così si imparava, finché la scienza moderna Hubble, Einstein, ecc. datarono l’inizio del cosmo a 13-14 miliardi anni fa. Per esplosione di energia da un punto come capocchia di spillo. Non dilunghiamoci sui dettagli: da energia, massa gassosa, galassie, pianeti, oceani, vegetazione, pesci, ominidi, homo faber, homo sapiens attuale. Qualcuno con ironia afferma che oggi si va verso l’homo insipiens. A grandi linee la vita sarebbe comparsa 4 miliardi di anni fa, l’uomo 3 milioni di anni fa, come dimostrerebbe un primo scheletro appartenente ad una donna, nostra nonna Lucy in Etiopia. Come dire che noi siamo discendenti di africani. Comunque veniamo da molto lontano e siamo orgogliosi di conoscere le nostre origini. Viviamo nel pianeta terra con un raggio di appena 6 mila km. che ruota attorno ad una banale stella di seconda generazione, situata fra altri cento miliardi di stelle. Siamo composti di 25 elementi, ma soprattutto di ossigeno, carbonio, idrogeno, azoto, calcio, zolfo, fosforo. Il valore dei miei atomi non va oltre i 15 euro. La mia interiorità si ribella all’idea che io sia un essere superfluo senza alcun significato. La scienza oggi è più consapevole dei suoi limiti. Cerca di spiegare come funzionano le cose, ma non ha la capacità di dare loro un senso. La religione può dare un senso ma non è in grado di analizzare come avvengono i fatti. Guardando le cose a ritroso, tutto il lungo cammino pare tendere verso l’essere umano, sino all’apparire della coscienza, come se l’universo desiderasse la comparsa dell’umano. Cosi scienziati come Teilhard de Chardin e Barrow. Caratteristica del processo evolutivo è la relazione esistente fra il tutto. Nessuna specie è autosufficiente, tutto è interdipendente. Esseri viventi, oceani, natura, suolo, temperatura. Complessità e mistero. Dalla rivoluzione agraria, a quella industriale, a quella cibernetica, a quella ecologica. Dialogo fra cielo e terra. Solo un essere intelligente superiore può aver tratto questo mistero dal nulla, perché dal nulla spontaneamente non nasce nulla. Che tutto sia avvenuto per caso, che il “Big Bang” formi un universo ordinato, la probabilità è stata stimata di 1 su 10123, come per caso potrebbe comporsi la Divina Commedia estraendo lettere alfabetiche da un contenitore. In noi c’è la registrazione di una storia molto lunga. Gli atomi che mi costituiscono esistono infatti da milioni di anni avendo fatto parte di essere sia animati che inanimati. Prima sono stati presenti chissà nelle montagne, negli invertebrati, nei colibrì, negli uccelli, pesci e anche in altri uomini preantenati. Catena umana, catena cosmica. Ora costituiscono l’originalità che sono io. Per questo mi sento in comunione con tutta la natura. Un giorno le mie cellule si scomporranno, i nostri atomi passeranno a far parte di un’altra realtà della terra, torneranno alla terra senza che per questo il mio spirito segua necessariamente lo tesso destino. E qui resta aperto un discorso. La mia corteccia cerebrale è capace di pensiero astratto, cioè di autoriflessione. Capace di percepire in qualche modo la presenza divina nel cosmo. Come indica la scoperta dei lobi frontali, battezzata non dai preti, ma dagli scienziati come “Punto Dio” che si attiva e si alimenta in occasione di una esperienza spirituale, dagli stessi chiamata mente mistica. Non solo dal credente L. Boff ma anche da tanti atei e agnostici privi di pregiudizi. Come se l’universo si fosse evoluto in miliardi di anni fino a produrre nel cervello umano lo strumento attraverso il quale è possibile captare la presenza di Dio che c’era da sempre, ma che non era percepibile in mancanza di coscienza adeguata. E considerando l’attuale nostro cervello con i suoi 100 miliardi neuroni e 500 mila miliardi di sinapsi nulla vieta di pensare (J. Arregi) che le sue prestazioni possano essere incrementate sino all’infinito. Cervello più complesso, intelligente, potenza della evoluzione. Così dobbiamo parlare di una cosmogenesi, di un mondo che si ricrea, si rifà, rinasce, al di là di tutti i cataclismi e apocalissi profetizzate da maghi e veggenti di oggi. Da quanto detto non è vero che noi veniamo dal nulla, quando veniamo concepiti portiamo nel nostro DNA la sintesi e il riassunto di un passato millenario non solo cosmico ma anche umano. E allorché si parla di peccato originale (vedi inizio presente articolo), va interpretato in modo simbolico (da non intendere leggendario), cioè che ognuno di noi si porta dietro un passato umano con pregi e difetti, che lo arricchisce o che lo appesantisce. Di qui in ognuno di noi l’istinto di progredire e scoprire (=positivo), ma anche quello di valicare i confini del suo attualmente concesso e possibile (=negativo). In quanto poi alla creazione secondo i sei giorni della bibbia, anche questo un simbolo, non va preso alla lettera come un verbale: significa che il mondo al di là delle modalità di creazione è frutto di una intelligenza e di un amore verso il cosmo e verso l’umanità. Questo il senso profondo del versetto “lo spirito di Dio aleggiava sopra le acque” Considerazioni queste non tanto peregrine, ma frutto di una riflessione sull’enciclica di Papa Francesco” Laudato sii o mi Signore” (24.5.2015). Lodare Dio nel caso non è una umiliazione, ma un sentimento di compartecipazione con lui, con il creato, con l’umanità tutta. Allora quanti anni abbiamo? Attualmente 14 miliardi più’ quelli anagrafici del nostro compleanno. Date queste premesse ci auguriamo un promettente futuro.

Autore
Albino Michelin
26.09.2018

mercoledì 24 ottobre 2018

QUANDO LA CHIESA PRATICAVA LA PENA DI MORTE

Come spesso accade molte dialettiche e contrapposizioni accadono allorché Papa Bergoglio senza tante sedie gestatorie, concistori, ex cattedre dell’infallibilità, pubblica un documento come quello del 2 agosto 18 in cui abolisce l’articolo 2267 del Catechismo che permetteva sia pure in casi eccezionali la pena di morte, per quanto questa sia stata esercitata nella chiesa da quasi due mila anni. Non meraviglia che tale decisione sia presa da un Papa Francesco sapendo che quasi tutta la sua preoccupazione evangelico-pastorale verte sulla salvaguardia della dignità e dei diritti della persona umana. Va premesso un breve excursus storico della pena di morte praticata dalla chiesa dalle origini, non tanto per la soddisfazione di metterla sotto processo, cose che tutti conoscono magari travisando oltre misura, quanto piuttosto per evidenziare le motivazioni. E si vedrà che più importante del comportamento del tempo è il processo storico evolutivo che vi sottostà. Sappiamo che Mosè alcuni secoli prima di Gesù aveva compilato i dieci comandamenti, il quinto dei quali dice di “non ammazzare”. Gesù non lo abolisce, anzi lo completa aggiungendo che chi dice al suo fratello” stupido” sarà sottoposto al sinedrio (Mt 5,22). Non occorre qui fare la lista delle legislazioni in materia presso gli antichi egizi, persiani, orientali, greci, romani. Saltiamo a piè pari al 313 d.C. quando la chiesa eredita da Costantino tutti i poteri politici e privilegi dell’impero romano. Pro dolor la chiesa da perseguitata diventa persecutrice. In effetti con l’editto di Tessalonica nel 385 il cattolico Teodosio dichiara:” che il cristianesimo è religione di stato. Chi non vi aderisce o è un mentecatto o è miscredente e oltre che con la giustizia divina dovrà fare i conti con la giustizia umana”. Leggi: pena di morte. Qualche anno dopo, nel 415 la cristiana Ippazia venne lapidata dai suoi correligionari perché donna erudita in matematica, in fisica, in filosofia. Cioè quando alla donna non era consentita la cultura dei maschi. E nel 1179 Papa Alessandro III ingiunge ai fedeli di prendere le armi contro gli eretici, confiscare i loro beni, renderli schiavi, mandarli al patibolo. Saltiamo anche le guerre di religione e l’inquisizione per approdare al 1600 quando Giordano Bruno venne bruciato con sentenza di San Roberto Bellarmino, in quanto sosteneva la possibilità di vita in altri pianeti. E Galileo che alla stessa fine ci scappò per un pelo se non avesse abiurato alla giusta tesi che la terra gira attorno al sole. Saltiamo a Pio IX, il papa Re, ultimo baluardo dello Stato Pontificio. Alle sue dipendenze, certo Mastro Titta, Gian Battista Bugatti, il boia più famoso della chiesa, si occupò di 560 esecuzioni. Gli ultimi due ghigliottinati furono i patrioti Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti, 24 ottobre 1868, cui il pontefice, invano supplicato, non concesse la grazia. I metodi erano stati i più svariati: impiccagione, decapitazione, annegamento, lapidazione, lancio dal dirupo, crocifissione, sbranamento, sotterramento, bollitura, fame, sete, smembramento, tortura, martellata in testa. In genere si sbatteva il crocefisso sulla bocca al condannato per indurlo al pentimento estremo. Il vaticano abolì la pena di morte di fatto nel 1969 con Paolo VI e di diritto nel 2001 quando la Repubblica italiana l’aveva già abolita nel 1948. E venne il 2 agosto 2018 in cui, come detto, Bergoglio tolse anche il comma dal recente catechismo impegnandosi per l’abolizione in tutto il mondo. Oggi gli Stati del mondo sono 206, e la pena di morte vige in 58, del quali 37 in Usa. La resistenza dei cattolici si basa sul fatto che dottrina e tradizione in questo campo furono per secoli indiscussi. Persino S. Tommaso nel 1250 la sosteneva:” come un membro malato si può tagliare per salvare tutto il corpo, così una persona che attenta al bene comune, e diventa strumento di corruzione, va eliminata”. Sulla stessa linea il Concilio di Trento 1560 e il catechismo di Pio X del 1905. Sostengono i conservatori che allora la sacralità della vita non è più assoluta, che nella teologia si apre una breccia, ci si mette su un piano inclinato nei confronti di una eventuale liceità dell’aborto e del testamento biologico o suicidio assistito. Un tempo si blindavano le dottrine della chiesa con il logo: ”De fide, de fide divina, de fide catholica, de fide definita, de fide tenenda, de fide definienda”, ora salta tutto? Può sembrare strano, ma è assodato che la resistenza più dura provenga dai vescovi degli Stati Uniti. Il teologo fondamentalista Roberto De Mattei invita i cristiani a reagire contro questo nuova dottrina, cioè nuova eresia di Bergoglio. A tanta problematica si può rispondere: la costante ribadita da Gesù resta il rispetto della persona, le variabili e le modalità cambiano. Un tempo si dava più importanza alle verità che non alla persona, oggi si registra che a problemi nuovi vanno date risposte diverse. Dal punto di vista teologico: anche i dogmi hanno la loro evoluzione d’interpretazione, anche le tradizioni vanno storicizzate. Ad esempio la psicologia ci ha aperti alla consapevolezza che la dignità della persona non va eliminata neanche dopo i più efferati crimini, perché può sempre ripensarsi e ravvedersi. Non occorre finire sulla croce come il buon ladrone. Per cui esiste una distinzione fra crimine e criminale. Inoltre oggi un reo è facilmente perseguibile, e può venire catturato a differenza di un tempo in cui la cattura risultava più ardua. Ed ancora: oggi sono stati messi a punto sistemi di detenzione più efficaci che garantiscono una doverosa difesa dei cittadini. Insomma un discorso complesso che fa parte di tutto un mondo nuovo da approfondire e che potremmo titolare „Le costanti e le variabili della fede e della morale.”

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Albino Michelin
24.09.2018

martedì 23 ottobre 2018

LIMITI ALLE DEVOZIONI RELIGIOSE

Va subito sgomberato il terreno nel senso che non si tratta di fare piazza pulita delle devozioni in quanto tali, che spesso sono l’unico sostegno interiore di molta gente. Quanto piuttosto fare alcune considerazioni perché gli equivoci in questo campo esistono e parecchi, profondi e radicati. Intanto non andrebbero confuse le devozioni e le religioni da una parte con la fede e la spiritualità dall’altra. Le prime possono anche alimentare ed esprimere le seconde, ma le possono pure sostituire, manipolare e sabotare. Da che mondo è mondo ogni cultura, da quelle preistoriche alle nostre post moderne, venera i suoi santi, oppure eroi pagani, saggi induisti, guaritori africani tutta gente equivalente ai santi. Non si sa in fondo quale sia la differenza fra l’antica romana Diana dea dei boschi, e S. Isidoro patrono dei campi. Ed è ovvio pure che ogni religione passa attraverso forme culturali del tempo. In tempo di fame si crea la Madonna delle Galline, in tempo di fortune militari si tira fuori La Madonna delle vittorie. Tutto il mondo è paese, ogni essere umano sente il bisogno di protezione. Nei periodi tribali si offriva alla divinità i beni più amati, come il sacrificio di un bambino il cui sangue si spargeva alle fondamenta della città da fondare onde ottenere fortune e benedizioni dal dio di turno. Vedi anche il mito biblico di Abramo che arriva quasi ad uccidere il figlio Isacco per obbedire al suo Dio che lo renderà padre felice fra le nazioni. Oggi invece si adottano bambini a distanza per sentirsi ossequenti al nostro Signore che ci ingiunge ad amare il prossimo come noi stessi. Anche le forme di devozione sono evolutive. Attualmente noi assistiamo al boom dei pellegrinaggi, visite ai santuari, cortei processionali, feste patronali, adorazione perpetua del santissimo sacramento, a S. Rita, S. Antonio, anime del purgatorio. In fondo quale potrebbe essere un limite che si annida in queste pratiche? Tentiamo di citarne qualcuno. Ogni devozione potrebbe avere un potere paralizzante. Ad esempio interiorizzare una debole immagine di sé, il sentimento della propria mancanza di valore, magari rafforzato da un esagerato senso di colpa o di vergogna del proprio comportamento: una diminuzione della propria autostima. Per altri che praticano devozioni l’immagine di Dio tende ad essere una divinità dittatoriale, minacciosa, giudicante, che essi cercano di rendersi benevola e il cui favore continuamente invocano. La loro strategia per sentirsi protetti da Dio è quella delle preghiere ripetute in genere adottando formule imparate dall’infanzia, complessi e paure conservate con automatismo durante la vita adulta. Altri si sentono vittime di una sottile ma pervasiva tattica patriarcale o clericale che punta a mantenerli passivi e sottomessi. Ricordando costantemente a costoro i peccati, i fallimenti diventa più facile soggiogarne la volontà e le decisioni. Altri ritengono che sopportare croce, sofferenze, sacrifici con passiva rassegnazione alla volontà di Dio sia più importante che intraprendere azioni per alleviarli. Queste persone soggiogate e colonizzate nutrono scarso interesse per la Bibbia o per il libro sacro della loro rispettiva religione, cioè dimostrano poco discernimento critico. Le scritture sono per i preti, per gli imman, per i santoni, per i brahmani, non per il popolo e rimangono occasione per pregare, anziché uno stimolo di comportamento per la vita relazionale quotidiana. Per altri devoti i preti tendono ad apparire come i perfetti rappresentanti di Dio sulla terra. La chiesa è vista come emanazione della divinità. Ciò che conta è essere presenti alle funzioni religiose più che parteciparvi. Questi devoti sono coccolati dal clero che loda la loro religiosità come “fede semplice della gente semplice”, apprezzamento paternalistico che rinvia alla volontà di dominio e di controllo. Vi sono persone che nella vita agiscono anche in modo creativo e responsabile, ma quando si affidano alle loro devozioni cadono in una sorta di trance perdendo quella maturità, cui danno prova in molti ambiti della vita. Altri devoti sono preoccupati quasi soltanto della salvezza della propria anima. Obbiettivo delle loro devozioni è salvare la propria anima, l'aldilà. Questo, il nostro mondo non interessa più di tanto, valle di lacrime. Un’anima sola hai, se la perdi che sarai. Dualismo fra l’anima e il corpo, lasciano il mondo alla sua sorte, al cataclisma finale, alla sua distruzione incombente, alle apocalissi, così care alle apparizioni e alle devozioni mariane. Il limite è che tutte queste devozioni si fermano troppo ad una religione di consolazione ma non diventano religione di liberazione. A tali devoti spesso non interessa nulla del cosmo, cioè della natura, dell’ambiente, della desertificazione, dell’inquinamento globale, dello sfruttamento delle terre. Non ci soffermiamo poi alle devozioni di prostituzione, strumentali, tipicamente italiche, ipocrite, vero obbrobrio di Dio e dei santi suoi, quelle esibite a scopo di pubblicità, successo negli affari, risultati politici, agitando corone di rosario in piazza o adornando i covi mafiosi di un pantheon di santi. Pure nel rispetto delle devozione come consolazione interiore, va sottolineata la necessità di una correzione verso una religione di liberazione, quale impegno di liberarsi e liberare le relazioni umane dalla corruzione, dal razzismo, dall’odio verso il diverso, dal caporalato, dagli evasori fiscali, dai muri, dalle gabbie in cui rinchiudere i bambini. Gesù ripete:” non chi dirà Signore Signore, ma chi avrà fatto la volontà del padre mio…” Se abbiamo così tanti devoti e così poca umanità un motivo ci sarà: quello della inutilità di molte nostre devozioni religiose.

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Albino Michelin
17.09.2018

lunedì 22 ottobre 2018

L'INTEGRAZIONE DEGLI STRANIERI: UN IMPEGNO, NON UNA PRETESA

Lamon è un paese della provincia di Belluno che nel secondo dopoguerra ha registrato un consistente esodo di residenti verso paesi di emigrazione, come la Svizzera. Da Ginevra fino a S. Gallo i Lamonesi hanno invaso il territorio ricavandone un benessere personale e contribuendo a quello locale. Come sempre è avvenuto nella storia delle migrazioni. Sabato 15 settembre casualmente mi trovavo nella piazza del paese in occasione della fiera del Fagiolo e mi sento chiamare per nome da alcune persone. Con un ex emigrato rimpatriato di nome Marco ho potuto instaurare una chiacchierata, i cui punti salienti giova pubblicarli perché potrebbero essere di aiuto per gli italiani che oggi hanno a che fare con il problema stranieri ed immigrazione, “l’onda afroasiatica”. Il primo rilievo: Marco inizia dicendo che lui deve ringraziare sentitamente le missioni cattoliche del tempo, si parla di 60-50 anni fa, perché molto si sono prodigate per l’accoglienza, l’accompagnamento e l’integrazione dei connazionali in quel paese. Francamente era la prima volta in vita mia che sentivo parlare bene dei preti. Ma il mio interlocutore era sincero e nessuna intenzione di lustrare le pantofole. Qualche argomento come punto e spunto di riflessione. Si dice che al tempo gli italiani entrando in Svizzera dovevano essere muniti di contratto di lavoro. Rispondo; si e no. In effetti ricordo a Basilea, dove fui attivo verso gli anni 60 arrivavano torme di ragazzi e ragazze, in rapporto con dei parenti o paesani, ma in pratica spaesati e figli di nessuno, senza nessun contratto. E noi avendo una certa conoscenza delle ditte o famiglie disponibili li accompagnavamo a destinazione e venivano accolti. Noi non si chiudeva porti, porte e portafogli. Si dirà altri tempi. Certo ma anche altro spirito. Non interessa qui se avessero poi sottoscritto il contratto o premesso la visita medica. Venivano piazzati. Altro rilievo: gli alloggi, penuria e approssimazioni. Le missioni, specie Ginevra, si adoperarono per costruire delle baracche in legno, in collaborazioni e sostegno delle autorità locali. Non si trattava certo ci chalet, ma di strutture dignitose, con cucina, letto, servizi igienici. E anche questo era un aiuto all’integrazione. In Italia invece ti ammucchiano gli stranieri in un recinto murario come le sardine, e li abbandonano alla loro sorte a bighellonare per le strade. E che dobbiamo pretendere? Che siano una squadra del buon costume? Altro aspetto. Quella nostra gente era in genere analfabeta su tutto, munita solo di braccia e tanta buone volontà. Così le missioni   organizzavano corsi serali per muratori e tornitori, corsi serali per taglio a cucito a favore delle donne specie ragazze che venivano inoltrate nell’ambiente e rispettate. Utile per l’integrazione.  Altro aspetto importante era quello dei nidi d’infanzia, degli asili, e delle scuole primarie, sempre in collaborazione con gli uffici del luogo. Tutti ricordano questo tipo di assistenza a Ginevra, Berna, Basilea, Zurigo, S. Gallo.  Indubbiamente si inseriva anche qualche ora di lingua locale, francese o tedesco a seconda, e questo perché chi sa parlare acquisisce dignità e potere e si sa anche difendere. Strumento valido per l’integrazione. In Italia invece è una querimonia continua, da una parte perché in certe scuole si registrano troppi stranieri, in altre mancano o gli italiani e causa la denatalità si deve procedere alla chiusura.  Ma dove si cerca di introdurre anche accanto all’italiano la cultura dello straniero? Se qualcuno si mettesse in testa di esporre a scuola un’icona cinese, africana, orientale apriti cielo, invasione, vadano a casa loro. Altro rilievo: i nostri emigrati provenivano in genere da paesi tradizionali quindi necessitavano della messa domenicale. In alcune parti potevano usufruire delle chiese locali, ma in altre, nelle grosse città su citate, i cantoni benché di religione protestante collaboravano anche con sostegno finanziario affinché si costruissero chiese, luoghi di culto centri di aggregazione italiani. Il loro principio era che se si concede libertà religiosa nella propria lingua, usi e costumi si rende l’immigrato più sereno e disponibile all’integrazione.  In Italia invece per costruire una moschea si viene a sollevare un putiferio. Si, perché i musulmani sarebbero tutti terroristi, tutti dell’Isis e nascondono bombe a mano dentro i pantaloni. Si, perché secondo gli italiani Dio è solo cattolico, non musulmano e per i musulmani. In questo modo non si crea una piattaforma di convivenza ma sempre di sospetto e di denigrazione. Nessuna integrazione. Altro ancora: in determinati periodi dell’anno in Svizzera si organizzavano dei saggi con i bambini, tipo danze, concerti, teatrini in cui si tentava di accomunare tutti, i bianchi e i negretti, per abituarli a collaborare nel rispetto reciproco. Assemblage che continuiamo anche oggi specie con quelli di provenienza eritrea e siriana. In Italia ogni anno verso natale assistiamo a polemiche infinite perché tale o tal altro concerto deve essere sacro, alla cattolica, non si vogliono mescolare scabbia e virus di bambini e tradizioni straniere con tutte le loro varie stregonerie Altro che ponti, e inclusioni, muri anche qui ed esclusioni. Sono gli stranieri che devono venire a noi e rinunciare alle loro superstizioni e non noi andare da loro a fondere la reciproche tradizioni. Se non si continua a osteggiare questa cultura non vi sarà mai integrazione. Ma volenti o nolenti le emigrazioni fra qualche decennio avranno dimensioni planetarie. Gesù diceva “verranno dall’oriente e dall’occidente e si siederanno al posto dei figli del regno”. Indubbiamente lui pensava all’aspetto religioso, ma anche sul piano etnico e sociale questo si verificherà nonostante tutti i nostri catenacci e fili spinati. Dapprima avremo l’invasione dei ricchi, dei calciatori del pallone che milionari verranno da ogni latitudine a rubare il posto alle nostre speranze giovani che ci priveranno anche di una nazionale decente, verranno i cinesi ad acquistare tutti i bar ed arricchirsi con i nostri soldi, verranno gli inglesismi, neologismi tipo devolucion e i nostri vocabolari rimarranno senza legittima difesa a salvaguardare il verbo italiano del grande Dante Alighieri.  Prima gli italiani e padroni a casa nostra diventeranno slogan vuoti, retaggio di un tempo che fu. Il nostro errore è quello di pretendere che gli stranieri (che poi sono percentuale limitata) si integrino, se no tornino a casa. Non pensiamo che l’integrazione richiede impegno di strutture e di personale da parte nostra, Questi discorsi ci sono venuti spontanei a Lamon nella sagra del fagiolo con l’ex emigrato in Svizzera Marco a dimostrazione anche che non tutti i veneti e i connazionali rientrati sputano sul piatto dove hanno mangiato, non tutti denigrano i loro ospitanti elvetici e i nostri nuovi immigrati. Né queste note sono state qui pubblicate per esaltare la Svizzera quasi fosse l’Eldorado e il paradiso terrestre. Anche lei ha avuto ed ha le sue sacche di xenofobia, ma certo non cosi viscerale. E nemmeno si vuole fare del clericalismo ed esaltare il ruolo delle missioni cattoliche, al tempo ruolo sociale oltre che religioso, (e oggi missioni per l’integrazione), ma per citare delle esperienze, che prese sul serio potrebbero umanizzare i nostri rapporti con gli stranieri in Italia. Perché sia detto, si respira un’aria pesante, greve, sospettosa, di caccia all’untore quando si valicano i confini per trascorrere qui qualche periodo di riposo o di turismo. L’integrazione in Italia sarà possibile quando si inizierà a parlare meno alla panza del popolo, si cesserà di istigarlo. Quando avremo meno fegato e più cuore.

Autore
Albino Michelin
16.09.2018