mercoledì 8 settembre 2021

STATO ATTUALE DI SALUTE DELLA CHIESA CATTOLICA

Lucio Caracciolo, filosofo e politologo direttore della rivista di geopolitica Limes, ha pubblicato recentemente su Azione del Ticino uno studio chiedendosi se la chiesa cattolica non stia andando verso un arcipelago di chiese. Dato l’interesse e la precisione dell’analisi vale la pena riportarlo al pubblico. Perché una inversione di tendenza può coinvolgere tutti, necessaria in quanto tralasciata per due mila anni specialmente nell’ultimo secolo. La chiesa cattolica si definisce universale ma mai come oggi è lecito dubitarne. Sempre più numerose le fratture interne. Come istituzione di potere, distinta dalla comunità di fede intesa da Gesù, essa si struttura in questo modo verso il 313 d.C. con la donazione dell’impero romano da parte di Costantino a papa Silvestro, prendendone abbigliamento, titoli onorifici, mondanità, stile di comando. Come in tutti gli imperi anche in quello assunto dalla chiesa le fratture partono dall’interno. Non interessano qui la consistenza numerica della chiesa attuale con il suo miliardo e trecento milioni di adepti, né le sue diatribe teologiche, tantomeno gli scandali sessuali e finanziari. Interessano piuttosto tre fenomeni paralleli e insieme connessi. Punto primo: l’indebolimento dell’autorità papale, ultimo monarca assoluto della storia occidentale. Bergoglio sta contestando il carattere costantiniano della chiesa. Il nesso fra impero romano e impero papale fu ben colto dal teologo domenicano Congar che l’11 ottobre 1962 giorno dell’apertura del Concilio Vaticano II annotava sul diario:” avverto tutto il peso, mai denunciato, del tempo in cui la chiesa aveva stretto legami col feudalesimo, papa e vescovi signori di corte che proteggevano artisti, pretendevano uno sfarzo come quello dei Cesari. Tutto questo la chiesa di Roma non l’ha mai ripudiato.” Osservazioni di 60 anni fa rimaste al palo. E oggi Bergoglio ponendosi in questa linea sta indebolendo, secondo buona parte del clero, la sua autorità ed efficacia di governo. Punto due: Bergoglio intende guidare la chiesa universale non all’italiana ma dalla periferia del mondo e la spinge in uscita verso i non credenti, le altre religioni: ciò ha contribuito ad accelerare la tendenza di molti vescovi, ovviamente non residenti in Vaticano, a muoversi per conto proprio e rileggere e applicare localmente il messaggio del vangelo. Chiesa mobile e policentrica. D’altronde che cosa unisce oggi un cattolico polacco ad un cattolico africano, sudamericano, tedesco? Poco. Tanto poco da mettere in questione l’universalità della chiesa e il ruolo di un centro vaticano romano. Punto tre: i vari cristianesimi dell’emozione. Galassia di confessioni, gruppi, movimenti pentecostali o meno, che anche se di diversa estrazione fioriscono in tutto il mondo. Opportuna la domanda: sopravvivrà la chiesa cattolica romana o si frammenterà in un arcipelago? Che cosa resterà della radice occidentale del cattolicesimo romano? In che misura la tendenza disgregatrice influirà sugli assetti geopolitici mondiali? Fino a qui il Caracciolo. Una risposta va tentata con i biblisti e i teologi della nuova generazione. Punto uno: separare totalmente l’attuale istituzione chiesa dalla sua origine imperiale e restituirla al vangelo di Gesù. Slegarla dal diritto romano e dalla filosofia greco romana con cui ha costruito i suoi dogmi, specie dall’inizio con il concilio di Nicea 325, origine delle sue formule irriformabili, indiscutibili, eterne. Ritornare ai messaggi del capitolo 12 di Paolo (1° Cor.) in cui proclama la diversità dei doni distribuiti ad ogni persona, quindi ad ogni popolo e nazione, nell’unicità dello Spirito del Signore. Diversità nell’unità era il pensiero di Gesù e non uniformità escludente le diversità. La diversità, come i fiori del campo, è arricchimento, non sempre dispersione. Ma l’intento eccessivo della chiesa fu quello di esigere sottomissione, silenzio, omologazione di tutto e di tutti. Punto due: molti vescovi in varie nazioni tentano esperienze diverse più vicine al vangelo e non sempre in sintonia con la chiesa attuale. Oggettivamente all’inizio prima dell’era imperiale la chiesa era policentrica, cioè di rito orientale, bizantino, armeno, maronita ed altro nel rispetto delle diversità di culture, riti, tradizioni. D’altronde a che serve tutta questa intransigenza della chiesa centrale sul divieto di preti sposati, donne preti e quant’altro. Tutti precetti sorti dalla chiesa costantiniana e nemmeno esistenti nel vangelo di Gesù. E sulla messa? Gesù si definì “pane di vita” e con il pane celebrò la sua cena o prima messa. Il pane era il cibo base di quel paese e del nostro occidente. Un’osservazione che sembra banale: il cibo base per i tibetani è il riso, per gli africani l’injera. Perché la loro messa non potrebbe essere celebrata con il riso o con l’injera? Quello per loro è il pane di vita. Diversità di riti e di doni nell’unità con lo stesso spirito del Signore. Importante non è il cibo ma il senso della condivisione di vita. E qui le esemplificazioni sarebbero infinite, né vale la pena proseguire. Punto tre: i cristiani dell’emozione, il pullulare dei gruppi. La chiesa non deve portarsi sempre dentro l’antivirus del protestantesimo, e poi correre tardivamente ai ripari. Non tutti i gruppi sono anti o “sette”, importante che non si facciano guerra, ma vivano lo spirito del Signore che li unifica nella diversità. E se l’attuale declino venisse compensato dai ricuperi cattolici dei paesi poveri non va ripetuto l’errore di impacchettarli e omologarli tutti alla stregua del passato. Essa non può coprire le diversificate esperienze dei vari popoli. La chiesa non ha il diritto di proprietà su Gesù, ma l’invito al discepolato e alla testimonianza evangelica nei confronti di tutti sia uguali che diversi.

Autore: Albino Michelin 22.07.2021
albin.michel@live.com

martedì 7 settembre 2021

PERCHÈ NELLE CHIESE PREDOMINA IL CROCEFISSO SUL GESÙ RISORTO

Si ha un bel dire e proclamare che la Pasqua è la festa più importante dei cattolici perché centro della loro fede. Poi di fatto nelle chiese campeggia il crocefisso, la croce con inchiodato il Cristo morto. Assente quasi totalmente l’immagine del Gesù risorto. La contraddizione è palese. Negli anni 70 del secolo scorso fu costruita a Lugano una chiesa meravigliosa, di imponente architettura dell’artista Rino Tami e dedicata al Cristo Risorto. Al centro dell’abside un crocefisso di ampia dimensione, quasi ad occupare tutto lo spazio e l’attenzione, e dietro nel murale dell’abside una icona un po’ enigmatica ed eterea del risorto. Per non dire poi l’invasione di croci e crocefissi in ogni angolo di strada, sui monti e lungo i sentieri, nei bar, nei luoghi pubblici, nelle scuole, nei tribunali. Persino nei dibattiti televisivi. Basti rammentare una trasmissione Rai del 26.10.15, degenerata in bolgia con cori da stadio in cui il duo Gilletti-D’Urso si schieravano a difesa del simulacro con la Santachè a dare del pedofilo a Maometto perché su Gesù crocefisso si limitava al rispetto, ma senza fanatismo. Oggi si inizia anche a vedere chiese in cui si espone sì la croce, ma senza crocefisso in prima evidenza e sarebbe ritornare ad un cristianesimo che pone i valori prioritari ciascuno al proprio posto, ma i cattolici tradizionalisti tacciano la novità di modernismo in senso spregiativo e protestante. Come dire che il virus antiprotestante per i cattolici è sempre in agguato. E pensare che la croce nella sua origine induista e precristiana significava svasta-svastica, cioè “salve, salute a tutti” perché con le braccia aperte alle quattro dimensioni, punti cardinali, intendeva abbracciare il mondo. Un breve excursus storico ci dice che nei primi periodi del Cristianesimo non si onorava la croce: Gesù aveva diversi appellativi, pantocrate, glorioso, buon pastore e simili, ma non crocefisso, anche perché i credenti si attenevano alle prescrizioni dell’Esodo (20,4-5) di non farsi immagini delle divinità. E soprattutto perché per loro Gesù era il vivente, morto una volta per tutte. (1° Pietro c.3,18). E la sua risurrezione già era avvenuta sulla croce, quando Dio Padre lo accolse e divenne per noi il vincitore della morte. A partire dal 1100 Gesù veniva rappresentato vivo sulla croce con tunica bianca da risorto ed una corona regale gemmata sul capo. Dal 1200 con Jacopone da Todi si fece strada e fino ai nostri giorni una involuzione. La devozione al crocefisso divenne identificazione con lui da una parte e auto colpevolizzazione personale dall’altra. Identificazione fra la sofferenza di Gesù e la nostra vita piena di tribolazioni, per cui diventava più spontaneo il pensare al Cisto morto che non al risorto, un po’ lontano dalle nostre tragedie comuni. Tale identificazione però veniva abbinata al bisogno di espiazione. Cioè siamo noi i colpevoli di averlo messo in croce,” sono stato io l’ingrato Gesù mio perdon pietà”. Quindi penitenza, digiuno, mortificazioni per ottenere misericordia e paradiso. Il tutto anche sostenuto da una letteratura del tempo specie da” l’imitazione di Cristo” di Tommaso da Kempis. Di qui pure la denominazione sacrificio della croce” dato alla messa. Mentre per Gesù essa significava-la condivisone del pane, per i cattolici del medioevo fino ad oggi è diventata la riappacificazione di Dio con l’umanità tramite la morte di Gesù in croce, come Dio fosse un Moloch sanguinario che si placa per mezzo di sacrifici umani. Questo concetto è rimasto anche nella riforma recente del messale romano, un maquillage di qualche mutata espressione, ma che ha lasciato intatto l’impianto di messa sacrificio della croce, l’esaltazione del crocefisso. Anche questo un motivo di fondo della supremazia del Cristo morto su quello risorto. Certo lungo la storia il crocifisso ha incentivato l’arte. Si pensi a quello di Cimabue del 1277, alla Pietà del Michelangelo, capolavoro senza tempo, alle opere di Mantegna 1433 e di Velasquez 1631 cariche di valore emotivo, a Marc Chagall (+1985) dall’identità ebraica di Gesù. Innumerevoli poi le chiese dedicate al santo crocefisso. E ben 32 sarebbero i chiodi venerati nel mondo come autentici. Ma troppo spesso l’arte ci pone davanti a Cristi languenti, macerati, abbrutiti dal dolore, raccapriccianti come nel film di Mel Gibson. E diffuse sono pure le cosiddette Via Crucis viventi in molti paesi dell’occidente, da quella di Oberammergau in Germania, a Mendrisio in Svizzera Ticino. Anche il sottoscritto per 20 anni l’ha organizzato ogni venerdì santo ad Affoltern nello zurighese con enorme concorso di popolo, oltre il migliaio di partecipanti, dando ad essa però un contenuto culturale e motivazioni sociali.” Come può un uomo uccidere un altro uomo”, cantava nel tragitto il brano Auschwitz dei Nomadi. Ma i cattolici di sempre preferivano testi lacrimosi e penitenziali. A dimostrazione anche qui della carenza del Gesù risorto, del Vivente, datore di ogni energia spirituale all’universo e all’ essere umano, garante dell’unità fra immanenza e trascendenza, dell’aldiquà e l’aldilà, fra questa vita e il post mortem. Un cristianesimo depauperato e piegato sotto il peso del peccato se pensiamo fra l’altro al primo saluto di benvenuto alla vita che si dà ad un bambino portato al battesimo:” Rinunci a Satana?” inserito in una messa che per nove volte porta la gente a battersi il petto peccatrice. Se non si passa dall’episodio pur tragico di Gesù morto al Gesù risorto, avremo sempre una religione basata sul dolorismo, anziché sulla gioia del Vangelo e del suo lieto annuncio

Autore: Albino Michelin 16.07.2021
albin.michel@live.com

lunedì 6 settembre 2021

OLIMPIADI DI TOKIO 2021: GRAZIE ALL'ITALIA MULTIETNICA

L’estate 2021 ci ha offerto due grossi eventi sportivi. Dapprima il campionato europeo di calcio (11.6-11.7) con la conquista della coppa, il secondo le olimpiadi di Tokyo (23.7-8.8) dove l’Italia ha battuto ogni suo record di medaglie, per la precisione 40. I due successi però possono avere una diversa risonanza. Nel secondo non ha vinto l’Italia anagrafica ma quella reale, composta di cittadini nati all’interno dei nostri confini e di altri che hanno scelto l’italianità. Il trionfo calcistico entra un po’ nella nostra tradizione, ma è una esperienza sia detto più superficiale, esplosioni di fuochi d’artificio, caroselli di clacson per le strade. In breve tutto si sgonfia. Il record di Tokio invece ci regala un’esperienza nuova e più profonda, meno chiassosa e più genuina, e ci pone alcune riflessioni. Anzitutto dal punto di vista finanziario. Tutti lamentiamo le cifre astronomiche con cui vengono foraggiati i calciatori, e anche questa volta nel pieno dell’estate Lukaku il belga dell’Inter è stato trasferito al Chelsea per 115 milioni. Che poi tali divi al di là della trasferta godano di un assegno annuale dai 10 milioni in su non ci interessa, basta che vinca l’Italia. I nostri olimpionici invece dopo anni di lavoro oscuro in campi e strutture sportive senza nessuna visibilità mediatica, carenti di audience, poco osannati e privilegiati, per niente viziati, ci offrono prestazioni esaltanti, con una medagli d’oro valutata 180 mila euro, d’argento 160, di bronzo 90. Certo non sono guadagni da pensionati, ma rimangono su uno standard comprensibile. Questo un primo motivo per cui il successo di Tokyo ci rende più fieri e meno spocchiosi di una coppa calcistica europea. E poi c’è qualcosa di più condivisibile. Tokyo non fu una platea calcistica, ma ci offrì 30 tipi di discipline sportive secondo l’affermazione di Federica Pellegrini che al di là della calciomania l’esercizio e le prestazioni del corpo umano sono molteplici e meravigliose. L’Italia vi ha partecipato con 386 atleti, di cui 46 nati o all’estero o stranieri nati in Italia. Senza contare gli integrati che vi stanno alle spalle: allenatori, preparatori, tecnici, famiglie, sostenitori: mosaico di uno sport, specchio di una società cambiata, più velocemente anche dei media, delle strutture, delle istituzioni. Gli straordinari successi sportivi ci dicono che l’Italia è diventata una nazione multietnica. E non si dimentichi “multiregionale. Un sardo di Oristano (St. Oppo), un sardo-lombardo (F. Tortu), un agrigentino-avellinese (A. Baldassarre), una pugliese (A. Palmisanoi), hanno demolito anni di pregiudizi, nazionalismi, odio razziale, in poche parole hanno sconfitto l’ignoranza. Questa è l’Italia che ci piace vedere, perché non si tratta di orgoglio sardo, lombardo, pugliese, campano, siciliano, ma italiano. E altrettanto ci insegnano atleti stranieri o di doppia nazionalità. M. Jobs, due ori, madre bresciana padre marine statunitense. Sara Di Maria, padre calabrese madre canadese. E il caso di F. Desolu, (oro staffetta) nato a Cremona, figlio della nigeriana Veronica da anni immigrata, addetta ai più umili lavori, la quale ha rinunciato a seguire in tv la vittoria del figlio perché”: sono badante e devo accudire ad una anziana”: episodio da romanzo Cuore del De Amicis. La riscoperta di un “noi” meno nevrotico è il felice risultato di Tokyo. Ha vinto l’Italia reale, quella dei nativi e quella degli emigrati. Sappiamo che l’Italia fisica è fin dall’antichità terreno di transito e che l’Italia politica attuale è venuta a contatto con emigrazioni di massa solo nel 1996 con i primi barconi dall’Albania. Di qui la trasformazione. Una nazione composta quasi esclusivamente da italiani per nascita si arricchisce a merito di italiani per scelta. La nostra storia ci aiuta con gli esempi del passato, tesi un pò troppo a frenare la crescita multietnica. L’ostilità viscerale fra nord e sud, il razzismo contro i meridionali, le leggi razziali del 1938 contro gli ebrei, le lacerazioni fra cattolici e laici nel dopoguerra, l’intolleranza verso i migranti, l’odio sugli spalti degli stadi ci dicono come nel nostro DNA si annida anche un pericoloso seme di rigetto verso il prossimo. Ma siamo anche una nazione che nasce dal risorgimento trovando una matrice unitaria fra tante patrie regionali diverse. Non si vuole qui inquinare il successo sportivo con il dibattito politico, ma utilizzarlo come risorsa non dovrebbe nuocere. Tokyo è anche un successo della seconda generazione dei nostri stranieri. Sappiamo che più di un milione di questi ragazzi attendono una soluzione: il diritto di cittadinanza. Tre disegni di legge sono fermi da un anno. Lo jus soli (diritto alla cittadinanza appunto per chi nasce in questo suolo, cioè l’Italia) dovrebbe tendere a semplificare il tempo di attesa, il raggiungimento del diciottesimo anno, con permanenza ininterrotta. E’ nota la burocrazia e anche il fatto che chi diventa cittadino italiano diventa pure europeo e quindi la Commissione ad hoc ha diritto di decisione. Ma temere un futuro tribalizzato e degradato della nostra ’italianità’ può sembrare fuorviante. L’incontro fra italiani per nascita e italiani per scelta ci permetterà di affrontare sfide globali come le medaglie di Tokyo dimostrano e diventare il volano di una crescita collettiva, ampiamente identitaria e culturale.

Autore: Albino Michelin 08.07.2021
albin.michel@live.com

domenica 5 settembre 2021

LE RELIGIONI SONO UN PRODOTTO DELLA CULTURA UMANA

Si sa che l ‘abitudine facilita le varie attività della nostra vita, però nel contempo può anche impigrire la nostra riflessione, l’unica capace di rinnovare tali attività stesse verso nuove soluzioni richieste dalle situazioni del mondo in evoluzione. Se ciò si osserva nel campo della produttività avviene anche in quello dello spirito e dell’interiorità, religione non esclusa. Ogni uomo nasce con una religione o con la disponibilità a prenderne coscienza. In questo senso avevano ragione già gli antichi prima di Benedetto Croce ade affermare:” perché non possiamo non dirci religiosi”. Qui polemiche e confronti fra le religioni non ci interessano. Come quella osservazione comune che tanti cattolici sono perversi e pieni di cattiveria mentre tanti atei sono onesti ed altruisti. Oppure se esistono atei senza nessun Dio, o si tratti di una versione sostitutiva di altre aspirazioni limitate .Comunque basta aprire l’orizzonte anche solo verso le tre principali religioni: il cristianesimo con due miliardi e 300 milioni di adepti, il musulmanesimo con un miliardo e 900 milioni, l’induismo (la più antica datata 4 mila anni a.C.) con un miliardo e 200 milioni e per accorgerci, che tutte hanno la stessa base comune, con differenze minimali di nomenclatura e di usanze provenienti dalle diverse culture ambientali. Ognuna con il suo dio: Jaweh, Allah, Brahma. Ognuna con il suo mito delle origini: la mela, la pietra nera, il grembo d’oro. Ognuna con la sua classe dirigente: preti, Iman, bramini. Ognuna con le sue feste: pasqua, ramadan, diwal (della luce.) Ognuna con il suo luogo di culto: chiesa, moschea, mandir. Ognuna con i suoi libri sacri: bibbia, corano, veda. Ognuna con i suoi post morte: paradiso Gan eden, reincarnazione Svarga. Ognuna con i suoi luoghi miracolosi: Lourdes, Mecca, Gange, esistenti già nel santuario pagano ad esempio di Asclepiade ad Epidauro in Grecia nel 300 a.C. persino con risorti da morte. Cambiano nomi, ma non cambia la realtà. Cioè il bisogno dell’uomo di collegarsi con una entità, un qualcosa di superiore, se non altro per protezione. E questo per la precisione si chiama teismo. Cioè un Dio che vive fuori dal mondo, negli alti firmamenti, artefice di miracoli o disgrazie a seconda del comportamento umano Mandando l’acqua, il sole, la tempesta, pandemie in base al tipo o meno di suppliche. Figura genitoriale, benigna o truce che crea dipendenza nei comuni mortali. Non c’è nessun dio “teistico” che sovverta le sue proprie leggi di natura per accorrere in nostro aiuto in caso di necessità. Non esiste un dio al di sopra dei cieli il cui ruolo sia quello di vigilare sui vulnerabili esseri umani. Quando si mette in dubbio questo dio alla luce dei continui dolori e delle disgrazie della vita quotidiana la pia retorica dei difensori del teismo diventa quasi farneticante. Discorsi isterici sul perché e per come Dio permetta tutto questo. E’ un tipo di religione, diffuso anche fra molti cattolici, è un sentimento universale, indipendente dal battesimo, dai vari riti di aggregazione, dai vari abra catabra della religione afro-spiritica. Se ci soffermiamo sul Cristianesimo, dovremmo subito chiarire che Gesù non è venuto a fondare nuova religione. Questo dio del “teismo” è morto e non esiste come non è mai esistito. Molti i teologi che l’affermano talvolta anche con una certa pressione, basta citare titoli di studi recenti:” Oltre le religioni…… La prepotenza delle religioni”, e infiniti altri. E quindi esiste una chiara distinzione, sebbene non contrapposizione, fra Gesù e la religione. Gesù non ha fondato nessuna religione, quantunque fosse nato sotto quella di Mosè e la conoscesse bene, non ha proclamato nessuna dottrina religiosa, nessuna mitologia, nessun Adamo ed Eva, nessun culto, nessuna classe clericale, ma il regno di Dio sulla terra, un rinnovamento dell’umanità a partire dal cuore. Però oggi in un mondo come il nostro dell’indifferenza e del relativismo una chiarifica interiore delle proprie scelte andrebbe fatta. Perché il nostro attuale cattolicesimo o cristianesimo sta mascherando e devitalizzando il messaggio evangelico di Gesù in una religione di conservazione, ripetitiva e fossilizzata, in cui è debole responsabilità e responsabilizzazione. Se per esempio ci riferiamo al rapporto ricchi-poveri noi ci si accontenta di fare l’elemosina ad un mendicante, però non ci passa per la mente che il messaggio di Gesù è fondamentalmente un mondo dove non dovrebbe esistere la sperequazione indegna fra povertà e opulenza. Ed è quest’ultima la sua specificità. Indubbiamente tale passione per il regno di Dio sulla terra postula anche l’interiorità, cuor nuovo e anima nuova. Dio non è un essere che va cercato sopra le nuvole o solo nei luoghi sacri e relativi riti, ma è una forza vitale che scorre attraverso tutto ciò che esiste. Come dice Dante muove il sole e le altre stelle. Viene chiamato spirito e identificato col vento che anima le foreste. Altre volte col nome di respiro come presenza vitale insita in noi. Altre come forza d’amore (1° Giov.14-16) che dimora in ogni uomo. Le religioni sono sì un prodotto delle culture umane, ma se riescono a recuperare una spiritualità integrale come prospettata dal messaggio di Gesù o di altri saggi potrebbero cambiare il mondo, diversamente continua la tentazione di contendersi il mondo.

Autore: Albino Michelin 02.07.2021
albin.michel@live.com