Tutti
abbiamo sentito parlare e letto sui giornali di Dacia Valent, la ragazza
somala, nata in una colonia del nostro antico ex impero e assunta nell'autunno
1988 come aiutante vigile e poliziotta al nucleo di Palermo: Nell'esercizio
delle sue funzioni mentre dirigeva la segnaletica stradale, o controllava i
parcheggi, è stata più volte insultata da cittadini sinceri e da cittadini
ubriachi. Da poliziotti colleghi di lavoro attraverso l'anonimato della radio
di bordo veniva chiamata «sporca negra», «spia», «puttana». Sempre gli stessi
colleghi di lavoro le facevano gentili improvvisate, scaricando sui sedili di
lavoro della sua auto scatoloni di preservativi usati. Ovvio che la somala sia
stata promossa a un lavoro interno di segreteria rinunciando a ulteriori rapporti
con il pubblico. Caso isolato o sintomo collettivo? Forse quest’ultima ipotesi
non è da scartare. Dacia Valent è una donna di colore, è una straniera o ex
straniera, è una «diversa». Noi da secoli siamo cresciuti in una cultura della
guerra e della violenza alle cui radici vi sta il rifiuto del diverso. Diverso
è tutto ciò che non fa parte del nostro colore, della nostra mentalità, della
nostra struttura corporea, del nostro ambiente, della nostra cultura, della
nostra razza, della nostra religione. Dagli antichi greci e anche prima agli
stati moderni l'obiettivo è sempre stato quello di integrare le nuove
generazioni nei motivi dominanti: disprezzo, odio, per il diverso. Nell'età
borghese il concetto di patria ha la sua esperienza culminante, quando il
cittadino prende le armi contro il nemico, il diverso. L'intero universo era
costruito sulla soppressione del diverso: o per espulsione dalla società o per
integrazione (in tutto diventare simili e rinnegare le proprie peculiarità). Anche
dal punto di vista della storia religiosa si è talvolta caduti in questa
tentazione. Quando per esempio l'attività missionaria tra la gente di colore si
è confusa con l'annuncio di una cultura propria e la soppressione della cultura
indigena, cioè del diverso. In questo contesto non potrebbe meravigliare la
bolla «Inter Coetera» di Papa Alessandro VI Borgia che il 4 maggio 1493
raccomanda ai portoghesi e agli spagnoli che le nazioni barbare vengano
umiliate e condotte alle vera fede. E anche quanto scrisse S. Bernardo verso il
1130 «uccidere gli infedeli non è peccato» perché si rende gloria a Dio e alla
sua santa verità. Certo se Bernardo è santo, lo è non per questa, ma nonostante
questa espressione. Lo studio stesso della teologia lungo i secoli passati era
guidata sì alla ricerca della verità, ma in modo particolare anche
dall'esigenza di sconfiggere gli avversari, i diversi. La paura del diverso
nasce dalla consapevolezza che esso esige una fatica di adattamento da parte
nostra per accostarci ad un'incognita. ln fondo è pigrizia mentale, è paura di
cambiare.
Il
diverso alla fine dei conti è uno che «diverge» da noi, cioè chiaramente non è
noi ma è contemporaneamente uguale perché uomo o dorma, con gli stessi nostri
problemi, speranze, difficoltà, attese, esigenze.
Il diverso
non andrebbe considerato come portatore di differenze, ma di arricchimenti. Si tratta
quindi di operare un'inversione di tendenza, un'anticultura in questo ambito e
iniziare a riconciliarci con la diversità, con il diverso. Dalla cultura
dell'intolleranza, verso la cultura dell'accoglienza. E per noi cristiani
questo è Vangelo.
Autore:
Albino
Michelin
11.03.1999
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