Gli emigrati hanno fatto l'esperienza che
quando in un determinato ambiente non si riesce a capire
la lingua, nemmeno passa il messaggio
culturale, cioè la rispettiva conoscenza sulle abitudini, la mentalità, usi e
costumi della gente. Si resta fra mondi separati, gli uni estranei agli altri.
Orbene questo meccanismo si avvera pari pari anche nella cosiddetta
"missionarietà" cioè nel rapporto chiesa parrocchia-missione da una
parte e mondo dall'altra. E per mondo possiamo intendere tutta una gradazione
di contenuti che va dalla gente di fede, a quella laica, indifferente, e via
via fino a quella sedicente atea. Oggi per esempio corre un po' dovunque fra di
noi l'affermazione che la chiesa è il popolo di Dio e che tale popolo è il
soggetto della pastorale, nel senso di agente attivo e corresponsabile. Tale è
la sintesi del Convegno di aggiornamento organizzato a Varese dal 17 al 20 ottobre
2000. Questa affermazione è profondamente evangelica perché rivaluta la dignità
di ogni persona dando al tutto una valenza meno clericale, meno parziale e più
comunitaria. Essa tuttavia ha bisogno di un linguaggio adeguato e di una
inversione di tendenza da parte di una mentalità cattolica rimasta per secoli
(oggi si direbbe) a custodia cautelare. Non convince, non conviene, non rende
sul piano operativo usare metodi superati ed arcaici ad un mondo che parla
tutt'altra grammatica. Su questa linea si permettano alcune osservazioni
costruttive, ad esempio "missionarietà e carta stampata". Nel
quaderno informativo dal titolo "Missioni e missionari in Svizzera"
edito nel '98 a pagina 71 viene presentata in esteso la biografia di Papa
Wojtyla. In gergo lapidario egli viene corredato da una sontuosa nomenclatura,
a tutta facciata, fra cui "Sovrano dello Stato Città del Vaticano". A
parte il fatto che va ringraziato il mondo internazionale laico per la sua
disponibilità ad includere negli stati moderni anche quello vaticano in cui non
è riconosciuta residenza legale a donne e bambini, tutto il nostro
testo sembra pervaso dalla preoccupazione unilaterale di una chiesa
verticistica, istituzionale, in cui la distanza dai fedeli (l'inflazionante
popolo di Dio) risulta fra le righe abissale. Anche il nostro linguaggio della
carta stampata dovrebbe meglio manifestare la realtà di comunione e unità
pastorale in direzione verticale, cioè la chiesa gerarchica come luogo di accoglienza, di verifica, di sostegno dei carismi del
popolo credente. Ma senza troppi medaglioni onorifici, perché questo è linguaggio arcaico,
appropriato ai lontani tempi degli imperatori. Inoltre è controproducente
attribuire al rappresentante della nostra cattolicità
il
mito del Re, del
"totalmente altro" e dell'intoccabile, in quanto sul piano pratico
rischia di fomentare inutile anticlericalismo,
polemiche, ironie. Vedasi gli attuali contenziosi circa il Concordato, la estraterritorialità,
la foresta di antenne vaticane disseminate nella città di Roma. Ci si presenti
dunque anche nei carteggi e nella carta stampata la biografia di un Papa più
umile a senza fronzoli e la nostra pastorale sarà più credibile. Un'altra osservazione
concerne il linguaggio maschile. Cioè il diritto dovere dello spazio donna
nella chiesa. E' un discorso ricorrente, ma con implicanze nuove. Forse non tutti
sono informati
che dall'anno 2000 nel seminario di Coira, dove si preparano i preti della
nuova generazione, docente di teologia dogmatica e fondamentale sia una donna, la trentaseienne Eva Maria
Faber. Da salutare con entusiasmo questa paritetica collocazione della donna nella
Pastorale, fatto che potrebbe costituire un incentivo anche alle nostre 121
suore, religiose, missionarie Italiane di Svizzera. In effetti difficile reperire
ancor oggi una donna consacrata
per una conversazione domestica su Gesù e la donna e ciò dimostra come le nostre
consorelle soffrano ancora di una sudditanza psicologica clerico-maschile e che
ci rimane un elevato
margine onde promuovere o permettere la formazione culturale delle nostre suore
(un esercito!) a livello universitario, biblico e teologico. Anche questo potrebbe
significare unità pastorale, cammino di comunione, non tanto geografico o di
accorpamento territoriale, quanto di mentalità e di valori. Il linguaggio
femminile dà alla missionarietà quel plus di psicologia e di rapporto umano, che talvolta
ai
maschi
fa difetto. Una
terza osservazione riguarda il fenomeno più o meno latente delle chiese
parallele. Cioè i rapporto missione italiana-parrocchia svizzera. Chi è nato nel Veneto conosce Il
detto popolare che definisce il prete "Don Fasso tutto mi". Ora
trovarci qui nelle
parrocchie locali in cui laici, operatori pastorali, teologi, sposati o meno,
dirigono una comunità
cattolica ci sentiamo
un po'
fuori della nostra
pelle. In effetti il "Don Fasso tutto ml" è stato formato alla gestione unica
ed
insindacabile
del potere sacro. Vedersi del laici accanto lo considera quasi una forma di concorrenza
e di indebita ingerenza. E di qui la tentazione di applicare l'istruzione
vaticana del 15.8.97 (dal titolo La collaborazione dei laici
ai ministri ordinati) nei senso più restrittivo. Ma anche al riguardo non sembra
possibile oggi fra
di noi in terra elvetica una missionarietà senza questo nuovo linguaggio. Ed un
ultima osservazione. Dato che il Delegato nazionale del Missionari lo è pure delle Missioni, quindi
indirettamente anche dei rispettivi gruppi di chiesa e Consigli Pastorali, si auspica che l'elezione del
prossimo Delegato per Il periodo 2002-2007, sia esso di nuovo conio o successore di
se stesso, venga ovviamente nei modi ritenuti più opportuni e adeguati discusso
in antecedenza anche dal laicato interessato, per quanto concerne il servizio e
l'orientamento da garantire. Pure questo in coerenza con Il documento ufficiale
del su citato Convegno di Varese, in cui all'Interno dell'Unità Pastorale si
delinea Il popolo di Dio quale soggetto attivo e corresponsabile della evangelizzazione.
Anche su tale argomento
la missionarietà ha un senso pieno se trasmessa con questo linguaggio: la partecipazione.
Autore:
Albino Michelin
15.05.2001
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