E' questa un'espressione
tratta per ironia dalla Bibbia (Luca 6,24) che sembra possa riferirsi anche
all'immane tragedia del Sud est asiatico nella quale il 26.12.04 sono perite
oltre 200 mila persone e rimaste senza tetto 5 milioni. Non è certo nefasta
come quella registrata in Cina il 23.1.1556 con 830 mila morti, ma è pur sempre
una catastrofe dalle dimensioni apocalittiche. La potremmo analizzare sotto tre
aspetti: l'impatto psicologico, quello religioso (dov'è Dio?), quello
umanitario (quale solidarietà?).
Prima impressione: un senso di precarietà.
Francamente ai vulcani,
agli oceani, alle placche che sostengono il continente non importa proprio
nulla che sia natale, pasqua, la festa del patrono, la sagra del paese, ferie o
giorni lavorativi. Tutti i giorni sono uguali. La natura semplicemente ci
ospita e si può da un momento all'altro sbarazzarsi di noi, nonostante i nostri
cellulari e navigatori satellitari. La tecnica non è in grado di controllare la
terra, soprattutto se di essa ci si vuole fidare ciecamente. Ha ragione in
parte anche Eschilo, l’antico tragediografo greco, quando fa dire a Prometeo
che gli uomini sono effimeri, e pure il poeta francese del secolo scorso P.
Claudel quando scrive che tutto il reale è effimero e l'effimero non è che un
simbolo. Nella natura esiste un limite al di là del quale tutto si trasforma in
perdita. Di qui il senso della nostra precarietà, di ciò che possediamo, di ciò
che siamo. La vita e la terra più che sfruttate vanno capite. Si fa strada la
necessità di amministrare in altro modo ciò che abbiamo, ciò che abbiamo
guadagnato, smettere di sognare nella immortalità che non c’è, di convincerci
che non c'è nessuna scienza che ci può permettere eterna gioventù. Vi sono
territori dell'anima in cui la scienza non serve a nulla. Questi in sintesi i
sentimenti che ci hanno attraversato dopo la devastazione dello tsunami.
Una domanda: dov’è Dio?
O non esiste o se esiste è
impotente. Questa una delle tante conclusioni tirate di fronte ad una furia
sismica in cui la maggioranza delle vittime sono stati bambini innocenti,
pescatori e povera gente. La risposta (ne scelgo una fra le innumerevoli) data
dal Cardinal Martino: "Dio ha voluto metterci alla prova" non ci
soddisfa più di tanto, tirarci fuori Dio in questi casi è devastante, perché un
Dio a questo prezzo nessuno lo vuole, anzi una religione così proposta in
alcuni casi crea solo degli atei. Provvidenza non è provvidenzialismo e questo
linguaggio è proprio un'incauta lettura provvidenzialistica della storia. Il
fine non giustifica i mezzi cioè il raggiungimento di un fine buono (creare un
mondo più onesto, della gente più brava) non giustifica neanche da parte di Dio
il maneggio di ogni mezzo, disgrazie, catastrofi, sciagure, sofferenze.
Diversamente abbassiamo Dio al livello di Macchiavelli, cioè che il fine
giustifica i mezzi. Superare d'un balzo l'impasse e affermare piuttosto che
"Dio dopo ogni calamità non ci abbandona mai" sembra la risposta meno
semplicistica e meno sommaria. Il "non si muove foglia che Dio non
voglia" è un bel proverbio che come dovunque ha però il suo bel controproverbio:
"aiutati che il ciel t'aiuta". Certo nell'Antico Testamento si legge che
Dio ha mandato il diluvio per "distruggere" l'umanità iniqua ad
eccezione del giusto Noè, e che Dio nel Deuteronomio lancia il messaggio “sono
io che do la morte e faccio vivere" (32,39), ma non è il Dio di Gesù! Il
suo è il Dio della creazione, della redenzione dell'amore, non delle botte in
testa. Il concetto di Paolo che la natura è diventata violenta e ingovernabile
a causa del peccato originale di Adamo e di Eva che hanno mangiato la mela è un
tentativo personale di innocentare Dio e toglierlo dalla responsabilità delle
disgrazie. Vero cioè, come detto sopra, che Dio non c'entra, ma discutibile
l'argomento che il peccato di Adamo abbia prodotto un tale sconquasso. Certo è
un fatto: che più l'uomo si riconcilia con Dio rispettando le sue leggi poste
nella natura, più la natura si riconcilia con l'uomo e gli diventa meno
sinistra. Qui cade appropriata la recente osservazione di Luzzatto, porta-parola
della religione ebraica: "la natura ha le sue leggi e le sue regole, tocca
a noi conoscerle e allo scopo investire tempo e denaro per vivere meglio e più
sicuri". E se Dio nella natura ha posto delle leggi egli perderebbe di
credibilità se ad ogni momento intervenisse a sospenderle. Chi getta un sasso
in aria sa che, una volta esauritasi la forza di propulsione, quello per la
legge di gravità ritorna giù. Se non si sposta gli cade anche in testa. Nel
caso non puo lamentarsi con Dio che non ha fatto il miracolo. Chi stanco
dell'escursione si siede e si addormenta sopra un formicaio al risveglio non ha
da reclamare contro Dio che gli insetti l'abbiano tutto martoriato. Chi
costruisce baracche in un terreno sismico, o palazzi sotto il Vesuvio non può
processare Dio se la terra sobbalza e il Vulcano erutta sommergendo tutto e
tutti. Indubbiamente questi tentativi di risposta lasciano aperte delle obbiezioni,
ma per lo meno sciolgono parecchi interrogativi e non tirano in campo sempre il
Padre Eterno. La terra è un meccanismo autoregolativo, che dobbiamo conoscere e
non semplicemente sfruttare. Essa è ancora giovane, in fase di assestamento,
nonostante il suo sistema pare abbia avuto inizio circa 15 miliardi di anni fa,
quindi in continuo divenire. In questo contesto si può inserire il detto di
Paolo: "la creazione soffre e geme le doglie del parto" (Rom.8,22) e
quello dell'Apocalisse in cui si promettono cieli nuovi e terre nuove (21,1).
Quale solidarietà?
L'attacco alle Torri Gemelle
di New York l'11 settembre 2001 con oltre 3 mila morti ha diviso il mondo e creato
uno scontro fra civiltà, perché un fatto umano. Il diluvio delle Maldive invece
ha unito il mondo perché un fatto di "natura". Che le varie religioni
abbiano rinunciato ai loro diversi riti funebri e si sia proceduto all'interramento
in fosse comuni e a cremazioni di gruppo, dimostra che Dio è uno ed uguale per
tutti. Altra considerazione: il maremoto tsunami non ha privilegiato alcuni
rispetto ad altri vacanzieri del turismo, spacciatori di droga, ricchi nababbi,
star dello spettacolo, sfruttatori del sesso, tutti accomunati con i poveri del
luogo. Il tripudio verificatosi per qualche divo mediatico e qualche famiglia
scampata che persino in Tv si è proclamata graziata e selezionata da Dio, come
estratta a sorte, tutto ciò sa di sconcerto. Questa tragedia oltre che grande
emozione poi ha suscitato dovunque una grande solidarietà. E come primo intervento è senza dubbio stato necessario
e resta encomiabile. Ma poiché questo disastro ha avuto in parte anche cause
politiche, che si potranno ripetere in futuro, sulla solidarietà va fatto d'ora
in poi un discorso più globale, allo scopo di fondare un ethos, cioè un'etica
morale mondiale. Diversamente tutto
finisce nella retorica del buon cuore. Buona parte di questo disastro (pur
ripetendo che la tecnica non arriva a tutto) va addebitato ad un peccato
politico. Non lasciamoci commuovere dai 500 milioni di dollari per l’assistenza
offerti dal Giappone e dai 350 degli Usa. Quando un bombardiere in Iraq costa
250 milioni significa che l'America ha contribuito con l'equivalente di un
bombardiere ed un quarto. La guerra in Iraq costa 4 miliardi e mezzo di dollari
al mese. Grazie per le donazioni, ma restano sempre una spilorceria nel secchio.
Sì, perché il debito che quei 12 Paesi del maremoto hanno da tempo contratto
con l'occidente ammonta a 350 miliardi (!) di dollari. Per cui la prima
soluzione politica è l'annullamento del debito senza moratorie. Solidarietà
politica significa anche fare delle scelte prioritarie: invece che investire
per andare sulla luna, investire in quei territori per l'ecosistema, strumenti
di previsione, d'allarme, di sanità. Nell’Oceano Pacifico tali sistemi esistono,
ma si tratta di interessi fra due potenze economiche, Usa-Giappone. Nell'Oceano
Indiano invece, nell'Indonesia fra i miserabili figli di un Dio minore tutto
ciò è carente. Solo piscine imperiali a vantaggio dei pochissimi megaricchi.
Ecco perché un terremoto di scala 7 causa maggior numero di vittime qui che non
lo stesso terremoto ad uguale intensità nei territori dell'asse Usa-Giappone.
Infine soluzione politica globale: 200 Paesi, 6 mila lingue tutti uniti, si
pongano sotto l'egida dell'Onu, rinunciando in materia a fare i galli cedroni,
i primi della classe, a correre da soli. Il mondo deve sentirsi una sola famiglia,
la politica deve battersi per questo. E così anche la terra e l’ecosistema ci
diventeranno una casa più amica.
Autore:
Albino Michelin
08.01.2005
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