È pressoché
incredibile che ancor oggi possano essere scritte pagine come quella di don
Angelo Lini su chi ha pensato di lasciare il ministero sacerdotale (Rinascita
del 18.3.1998). Non giudico la persona che quella pagina ha scritto, sia ben
chiaro. Mi sento però in diritto di giudicare, e con estremo vigore, il
contenuto del suo scritto che, affetto, com'è, da un giurisdizionalismo
parossistico, è quanto di meno evangelico si possa immaginare (ed è il meno che
si possa dire). Non vorrei certo comparire davanti al Padre Eterno con un tale
prete nella funzione di 'giudice a latere'. Ma penso proprio che neppure Dio
abbia preso in considerazione una tale eventualità.
Mi
chiedo piuttosto che tipo di misericordia sarebbe amministrata in confessionale
da questo prete o, per meglio dire, quale misericordia egli userebbe, se mai ve
ne fosse bisogno, con un ex (che tale propriamente non è mai) qualora se lo trovasse
davanti alla grata. Con la logica espressa in quello scritto egli si fa
paladino di un puntiglioso integralismo. Ma è una logica miope e
rigoristicamente giansenistica. Non voglio dilungarmi troppo, né rispondere
punto per punto a ciò che quello scritto afferma. Mi limiterò ad accennare a
quello che in esso è esaltato come il periodo di preparazione al sacerdozio in
seminario. Basterebbe che don Angelo Lini frugasse in qualche biblioteca e
andasse a leggere quello che anche preti pur fedelissimi al loro ministero
hanno scritto su quelle che furono le loro esperienze in seminario.
Ciò
non vuole essere una condanna in blocco, ma qualche riserva è pur ben lecito
farla, circa la metodologia seminaristica di qualche decennio fa. Senza dire
poi che lo scrivente non accenna neppure minimamente a quella che può essere
l'evoluzione della psicologia umana, almeno come dato importante nella valutazione
della persona (anche se ciò non può avere la valenza di attenuante assoluta):
l'animo umano non si blocca a 18. 24 o 30 anni. Lo scrivente inoltre fa
riferimento a Matteo (16, 18-20). Al di là della dibattuta esegesi attorno a
questi versetti, se mai Cristo da’ agli Apostoli e ai loro successori il potere
di sciogliere e di legare, non dà certo quello di legare le mani al Padre
Eterno, o anche di assolutizzare ciò che nel corso dei tempi può essere oggetto
di mutamenti, in quanto non iscritto nella legge di natura o nel deposito della
fede rivelata. Adagio Biagio, è il caso di dire (anche qui: non si prendano a
pretesto queste parole, quasi che con esse si volesse distruggere 'ab imis
fundamentis' l'autorità della chiesa gerarchica). Lo scritto di don Lini
ricorre all'esempio di chi entra in un campo da gioco, di chi guida un'automobile.
Il giocatore però, se vuole può sì uscire dalla squadra, ma se ne ha il titolo,
a determinate condizioni può anche sempre rientrare! E se a uno è stata tolta
la patente, a determinate condizioni può anche rivenirne in possesso! Ma al
prete che ha lasciato il ministero non si perdona neppure uno iota, quando pure
non lo si additi al pubblico ludibrio. Per lui non si dà alcun ritorno. A che
pro?
No,
io amo pensare a quanto mi è stato più volte raccontato: Paolo VI (non da
cardinale ma da papa) in incognito faceva sovente visita ad un ex (e dagliela
con questo ex). Ma anche se ciò fosse benigna cronaca, amo riandare con il
pensiero a quanto umano, e intelligentemente comprensivo, fosse quel pontefice.
La realtà è che nessuno è cosi severo con i preti, che in coscienza hanno
lasciato il ministero, come certi preti, come certi vescovi, e via dicendo
(anche se costoro sono poi pronti a chiudere occhi ed orecchi verso coloro che,
pur vivendo indegnamente, mantengono il proposito di non rompere le file per
evitare lo scandalo. C'è poi una sorta di esterno ostracismo da parte della
gerarchia ufficiale nei riguardi dei confratelli che hanno mollato. Un esempio?
Si legga l'ultimo decreto sui laici. A tutti, dico a tutti i battezzati è
lasciato uno spazio di attività apostolica, meno che al prete che più non fa il
prete (neanche la liturgia della parola). E perché? Questa agghiacciante
intolleranza questa sorda inflessibilità, questa disumana segregazione, come possono
conciliarsi con la carità cristiana? Ma c'è soprattutto un dato teologico che
dalla gerarchia è volutamente lasciato cadere in ombra. Che l'ordinazione
imprima nell'anima un carattere indelebile è un dato teologico, non un
oroscopo. Bravi son pertanto quei preti che, obbedendo alla loro coscienza, chiedono
umilmente e senz'altro dolorosamente la dispensa. Bravi quei preti che
accettano anche la segregazione come un doloroso ed inevitabile tributo
all'autorità. Ma, di grazia, dispensa o non dispensa che ne direbbero coloro
che così li maltrattano, se, per ripicca a questo ostracismo, gli ex si
mettessero a celebrare messa, ad amministrare i sacramenti, ecc.? Che
differenza farebbe, ad esempio, una messa celebrata da un ex e quella celebrata
da don Angelo Lini? Ci ha mai riflettuto costui? Con stima.
(Aurelio
Reboldi)
a
cura di
Albino
Michelin
27.05.1998
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