Il recente film di Mel Gibson diventa una
provocazione a reinterpretare il sacrificio di Gesù e della messa da una parte,
nonché al significato del dolore e del dolorismo nel mondo dall'altra. Va detto
subito però che questo film è un'orgia di sangue. Dopo 16 mesi di lavoro,
presentato in anteprima la settimana scorsa, verrà lanciato prossimamente sui
grandi schermi. E sarà cassetta con furor di popolo. Specialmente per la nostra
gente del Sud in quanto l'opera è stata girata fra i tufi e i sassi di Matera e
a Craco in Basilicata e per i personaggi a tutti noto che vi partecipano. La
Maddalena (M. Bellucci), il diavolo (R. Celentano), Caifa (M. Sbragia), Giuda
(l. Lionello). Il regista è un cattolico, tradizionalista. Nulla da eccepire,
nella nostra santa religione c'è posto per tutti. Ma estremista! Quindi va
seguito con spirito critico. Qualcuno aggiunge anche con sospetto perché ad
esempio ripropone il popolo e l'autorità ebraica come deicida (uccisore di
Dio), mentre lascia neutrale l'autorità romana vedi Pilato che si lava le mani:
c'è dell'antisemitismo. Poi egli prende il racconto della Passione alla
lettera, senza demitizzazioni o generi letterari. Diciotto ore di atrocità
sofferte da Gesù dalle ore 21 alle 15 del Venerdì Santo. Tutto alla lettera,
cioè con il sole che si oscura, le stelle che impazziscono, terremoto, tempio
che si squarcia, sepolcri che si aprono. E dopo tutto tanta violenza: sangue,
torture, sequenze in interminabili di flagellazioni: andrebbe vietato ai minori. Ed ancora
una visione insistente e fastidiosa di bimbi deformi, esaltazione di
handicappati con difetti fisici come segno in loro della presenza demoniaca: un
messaggio moralmente balordo. Concediamogli l'oscar del Dracula kolossal, ma il
credente giustamente si domanda come può la nostra fede venir stimolata da uno
spettacolo tanto truce. Da cattolico fanatico della tradizione, coriaceo assertore
della dottrina del Concilio di Trento (1560), per Gibson la nostra messa
ridiventa anzitutto sacrificio di Gesù, rinnovazione incruenta (cioè senza
spargimento di sangue), della sua passione. Altro che pasto fraterno e
santa cena come sostengono i protestanti. No, il pane nella messa viene
transustanziato nel suo corpo, il vino nel suo sangue; e le due realtà
sull'altare separate danno a significare l'ostia, la vittima sgozzata,
l'avvenuta "mattanza". Per Gibson il suo film è una Messa nel senso che
ti introduce, te la spiega, ti si identifica. Quello e questa per me pari sono,
si potrebbe dire parafrasando la nota lirica. Tale concezione mi rimanda a
tante domande che alcuni cattolici attenti si pongono sulla messa oggi, come
sacrificio di Cristo. Una per tutte l'osservazione della signora Vreni di
Altdorf. "Mio marito è italiano e l'anno scorso a Pasqua siamo andati a
messa con il nostro bambino che si prepara alla prima comunione. Alla predica
il prete disse con testuali parole che nella messa l'agnello immacolato Gesù si
immola sulla croce. Vittima di espiazione dei nostri peccati viene ucciso,
quale offerta gradita al Padre. Dopo la messa mio figlio mi chiese che cosa
avevo combinato per uccidere Gesù in quel modo". La signora pose a me la
domanda: come accettare la figura di un Dio Padre che ha voluto e lasciato
morire suo figlio sulla croce per espiare colpe che non ha compiuto. Chi rompe
paga e i cocci sono suoi. Che cos'è questo deresponsabilizzare e innoncentare
le canaglie? Se Gesù non aveva peccato non doveva nemmeno pagare. Mi sembra,
quella cattolica, una dottrina legata ad antichi riti pagani sadomasi e autodistruttivi.
E poi che cos'è questo mistero della messa ridotto a rinnovata, ripetuta,
infinita macellazione di Gesù? Fino a qui la signora Vreni, la cui obbiezione è
tutt'altro che peregrina e richiede un tentativo di spiegazione. La quale poi
va anche a toccare e mettere in crisi la struttura ideologica e teologica che
soggiace al film di Gibson. Che senso ha celebrare il piacere della sofferenza,
l'orgoglio del dolorismo, la sublimazione del vittimismo?
Ma la messa è anche santa Cena! Indubbiamente il cattolicesimo ha insistito
eccessivamente e quasi unicamente sulla messa come sacrificio di Gesù sulla
croce che con ciò paga a Dio il tributo dell'umanità; cosi placa il Padre
celeste e ci spalanca trionfale le porte del paradiso. Semplicismo! Questo non
è stato il concetto di Gesù, gli è stato piuttosto attribuito già da alcuni
scrittori del Nuovo Testamento, attingendo a tradizioni loro accessibili nelle
prima comunità Gesù non ha mai voluto al centro della sua fede l’immagine di un
Dio adirato, giudice punitivo che il medioevo e la nostra storia recente hanno
voluto imporgli. Gesù non aveva in testa le categorie di colpa-espiazione così
comune al vecchio testamento e ad alcuni filoni della religiosità popolare.
Egli crede nella bontà di Dio senza riserve moralistiche. Non ha mai tirato in
ballo il paragone con Abramo, salito sul monte a sacrificare il figlio Isacco per
piacere a Dio. Paragone contradditorio perché anche all’atto della pena di morte
Dio è intervento a fermare il braccio di Abramo per indicargli come sacrificio
sostitutivo un montone. E quando Gesù venne sulla terra abolì anche i sacrifici
dei montoni, pecore, animali. Dicendo che il vero sacrificio dell’uomo è quello
di seguire la volontà del Padre. Che non è una volontà di morte, ma di vita. Tant’è
vero che Gesù incontrandosi con sofferenti e ammalati non mai chiesto loro di
portare pazienza e di soffrire per i peccati degli altri. Per quanto ha potuto
li ha guariti e resi felici, proprio secondo la sua filosofia ”sono venuto a
portare la vita e che gli uomini ce l’abbiano abbondantemente”. Gesù non si è
mai riconosciuto vittima sacrificale per il peccato degli uomini, non sarebbe stato
coerente con la sua missione divina. Egli è andato incontro alla morte per le
sue convinzioni personali. Cioè che per portare un po’ di giustizia, di bontà, di
amore nel mondo bisogna pagare ciascuno di persona. E se lui ha scelto questa strada
non lo ha fatto al nostro posto per esimerci dalle nostre responsabilità’, ma
per darci l’esempio che come ha fatto lui così potremmo fare anche noi. Non si può
prestare fede a un Dio che punisce con la morte suo figlio per poi amarlo di più
e quindi amare noi soltanto in conseguenza di quella condizione. Si sa che Gesù
ha celebrato la cena pasquale con pasto di cibo e bevande in memoria della
liberazione del popolo d’Israele dalla schiavitù dell’Egitto e come anticipo
della rivalutazione che il Padre gli avrebbe garantito attraverso la risurrezione.
Nulla da vedere con i tratti di un Dio despota che amministra la grazia
inviando un volontario alla morte di croce. Il film di Gibson non aiuta in questo
senso, anzi impedisce di recuperare la messa come santa cena e banchetto. Pane
e vino al limite non sono nemmeno essenziali al sacramento. Per S. Paolo
essenziale è mangiare e bere insieme per la comune memoria del Signore. Per lui
non è decisivo che alla messa ci sia il prete ordinato ad hoc. Decisivo è il
comportamento fraterno. Si legga in merito tutto il capitolo 11 della
"lettera ai Corinti". Troppo verticale il film di Gibson, adorare il
sangue di Gesù. Poco orizzontale non entra in comunione con i fratelli, con
l'umanità. Sono pensieri che in prossimità della "Passione della Pasqua”
possono aiutarci a riflettere.
Autore:
Albino Michelin
19.03.2004
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