martedì 2 aprile 2019

DALLA CENA DEL SIGNORE ALLE NOSTRE MESSE RITUALI

L’ultima cena di Gesù, diventata con il tempo la messa cattolica, non fu un banchetto organizzato da un profeta depresso, ma l’invio dei discepoli e di tutti i credenti ad inaugurare il regno di Dio, cioè un mondo nuovo fondato sulla giustizia e sulla fratellanza. L’espressione è un po’ roboante e logorata dal tempo, però tradotta nella vita concreta vorrebbe significare una logica rovesciata da quella nostra abituale troppo egoista e individualista. E siccome l’ultima cena o la nostra messa viene sempre collegata alla morte di Gesù fino a identificare ogni messa con la ripetizione del suo sacrificio sulla croce e del sangue per il Padre e per noi versato, ci siamo anche con il tempo creati dei miti o per devozione o per esigenze di culto che esigerebbero qualche riflessione e chiarimento. Una zona piuttosto complicata della teologia che ci mette di fronte ad una tradizione di due mila anni e al modo di influenzare le prediche del clero, divulgando   l’equivoco che l’uomo bravo e onesto è tout court colui che frequenta la messa domenicale o che fa celebrare messe in continuazione, fonte di copiose grazie e benedizioni, quando magari all’atto pratico il suo comportamento di vita fosse anni luce distante dall’intendimento di Gesù. Qui bisogna premettere il punto di partenza e di riferimento, per il momento giusto o sbagliato non interessa, cioè che la messa sarebbe la ripetizione della morte di Gesù in croce. Non si venga a dire che una volta si pensava così, ma oggi il modo di ragionare è cambiato. Non pare vero, basta ascoltare Radio Maria, organo quotidiano della cultura cattolica per 6 milioni di ascoltatori e se ne avrà conferma.  Ovvio che la prima riflessione di Paolo e della prima comunità cristiana si chiedesse il perché dalle morte di Gesù. Tentativi e immagini mitologiche vennero presi dalla cultura del tempo, il cui significato resta permanente anche nel nostro. Nei vangeli e negli studi dei santi padri non esiste un modello interpretativo unico ed esclusivo, ma diverse interpretazioni composte da più strati e fra loro intrecciati. La teoria a noi pervenuta che la morte di Gesù sia un sacrificio olocausto a Dio gradito per la salvezza di tutti i peccatori, noi inclusi, si comincia a delineare in epoca medioevale a partire da Anselmo di Canterbury (1250). Il concetto di questo monaco è diventato e resta il nostro. La morte di Gesù avrebbe una doppia finalità: di espiazione, offerta a Dio Padre per rabbonirlo e fargli cambiare idea sulla nostra predestinazione all’inferno. E l’altra quasi a carattere “finanziario” sarebbe un riscatto versato a satana per strapparci dal suo possesso.  Che si potrebbe chiamare anche “militare”: morte di Gesù come combattimento contro le potenze del male. Nulla di più tenebroso. Ma eravamo nel tempo della fioritura della scienza giuridica, cioè del diritto, in una logica tutta legata al giuridismo romano: do ut des. Come dire: Gesù offre e da’ la sua vita a Dio padre, il quale gli restituisce il perdono dei peccati e la salvezza per tutti gli uomini strappandoli dal possesso del maligno. Con una serie di concetti mutuati tutti sempre dal giuridismo romano, pessimistici e negativi, come: legge, colpa, pena, espiazione, pentimento, ricompensa, soddisfazione, riconciliazione, restituzione, riscatto. A chi pone attenzione questi sono i sentimenti da cui si viene attraversati a ogni messa. Basti pensare che ben per nove volte viene accentuata la colpevolizzazione dell’uomo, dal Signore pietà Cristo pietà, all’Agnello di Dio abbi pietà di noi.  Nulla da meravigliarsi era lo spirito del tempo. Anselmo fila diritto secondo la logica, che, inutile ripetere, non era la logica di Gesù. Ma Anselmo col suo schema non mollava: col peccato originale Adamo e la sua discendenza avevano turbato l’ordine del mondo imposto da Dio, e Dio nella sua maestà ne è stato infinitamente offeso. Di qui l’assoluta necessità di cancellare lo schiaffo all’Altissimo. La colpa infinita può venire riparata solo da una essere infinito, non dall’uomo finito. Cioè solo la morte del “Figlio di Dio”, fattosi pure uomo poteva concedere ai suoi fratelli i suoi meriti e il suo perdono. Un impianto affascinante, ma schematismo giuridico unilaterale. Trasferisce sul religioso una antica mentalità sociale tribale, la bramosia di sangue degli antichi faraoni per concedere grazia ai poveri sudditi fedifraghi e felloni.  Come se Dio fosse un demone adirato cui si debbano sacrifici di sangue. E Anselmo sposa la credenza di S. Agostino (vissuto 800 anni prima) che attribuiva la prima presa di Roma alla omissione dei sacrifici agli idoli. Siccome il sacrificio della messa viene fatto derivare dal sacrificio della croce andrebbe evitato questo elemento fuorviante. Inoltre Discutibile il pensiero del nostro Anselmo per un ulteriore motivo, cioè il difendere la dottrina di Agostino che il peccato di Adamo si trasmetta per ereditarietà attraverso il rapporto sessuale quasi fosse un retaggio della specie.  E quindi necessaria la morte di Gesù per conciliare a Dio padre l’umanità sino alla fine del mondo. Gesù nel vangelo non parla mai di questo, né di Adamo, né di Eva, nemmeno in occasione dell’ultima cena. Discutibile è anche l’obbiettivo: non risalta quello di Gesù venuto al mondo a portare grazia misericordia, amore. Domina come nel diritto romano la giustizia punitiva e il riscatto. Certo la teoria di Anselmo nacque dall’intenzione per altro lodevole di rendere comprensibile alla sua nuova epoca (mille anni dopo la morte di Gesù) la tradizione antica. Però l’evoluzione che fu consentita alla teologia medievale non la si dovrebbe proibire alla teologia contemporanea. Non si può negare che questo concetto fa emergere nell’ inconscio popolare incresciosi equivoci paganeggianti quasi che Dio fosse così crudele e sadico nella sua collera da poter venire soddisfatto solo dal sangue e dalla croce del proprio figlio. Si sa che qualche sacerdote trovandosi di fronte all’impasse sacrificale: ”questo pane è il corpo offerto in sacrificio per voi” cambia in “offerto in amore per voi.” La messa non è la ripetizione del sacrificio della croce, è una celebrazione che inizialmente, subito dopo l’ultima cena, si svolgeva nelle case con comprensibile semplicità avente valore commemorativo, di ringraziamento (=eucarestia) e di distribuzione del pane e generi alimentari ai bisognosi.  Cena per un futuro da costruire sulla slancio della Risurrezione di Gesù. Certo ognuno è libero di andare in chiesa, al tempio, alla moschea, alla sinagoga per pregare il suo Dio, i suoi dei, i suoi idoli. Ma se si tratta di partecipare alla messa andrebbe premesso un esame: la messa, cena del Signore, non è fatta per chi in questo mondo vuole costruire muri anziché ponti, per chi vuole ammassare interessi personali ma per chi il pane di Cristo dall’altare lo fa diventare condivisione nella vita.

Autore:
Albino Michelin
16.03.2019

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