domenica 11 ottobre 2015

DACIA VALENT LA NEGRA DI PALERMO

Tutti abbiamo sentito parlare e letto sui giornali di Dacia Valent, la ragazza somala, nata in una colonia del nostro antico ex impero e assunta nell'autunno 1988 come aiutante vigile e poliziotta al nucleo di Palermo: Nell'esercizio delle sue funzioni mentre dirigeva la segnaletica stradale, o controllava i parcheggi, è stata più volte insultata da cittadini sinceri e da cittadini ubriachi. Da poliziotti colleghi di lavoro attraverso l'anonimato della radio di bordo veniva chiamata «sporca negra», «spia», «puttana». Sempre gli stessi colleghi di lavoro le facevano gentili improvvisate, scaricando sui sedili di lavoro della sua auto scatoloni di preservativi usati. Ovvio che la somala sia stata promossa a un lavoro interno di segreteria rinunciando a ulteriori rapporti con il pubblico. Caso isolato o sintomo collettivo? Forse quest’ultima ipotesi non è da scartare. Dacia Valent è una donna di colore, è una straniera o ex straniera, è una «diversa». Noi da secoli siamo cresciuti in una cultura della guerra e della violenza alle cui radici vi sta il rifiuto del diverso. Diverso è tutto ciò che non fa parte del nostro colore, della nostra mentalità, della nostra struttura corporea, del nostro ambiente, della nostra cultura, della nostra razza, della nostra religione. Dagli antichi greci e anche prima agli stati moderni l'obiettivo è sempre stato quello di integrare le nuove generazioni nei motivi dominanti: disprezzo, odio, per il diverso. Nell'età borghese il concetto di patria ha la sua esperienza culminante, quando il cittadino prende le armi contro il nemico, il diverso. L'intero universo era costruito sulla soppressione del diverso: o per espulsione dalla società o per integrazione (in tutto diventare simili e rinnegare le proprie peculiarità). Anche dal punto di vista della storia religiosa si è talvolta caduti in questa tentazione. Quando per esempio l'attività missionaria tra la gente di colore si è confusa con l'annuncio di una cultura propria e la soppressione della cultura indigena, cioè del diverso. In questo contesto non potrebbe meravigliare la bolla «Inter Coetera» di Papa Alessandro VI Borgia che il 4 maggio 1493 raccomanda ai portoghesi e agli spagnoli che le nazioni barbare vengano umiliate e condotte alle vera fede. E anche quanto scrisse S. Bernardo verso il 1130 «uccidere gli infedeli non è peccato» perché si rende gloria a Dio e alla sua santa verità. Certo se Bernardo è santo, lo è non per questa, ma nonostante questa espressione. Lo studio stesso della teologia lungo i secoli passati era guidata sì alla ricerca della verità, ma in modo particolare anche dall'esigenza di sconfiggere gli avversari, i diversi. La paura del diverso nasce dalla consapevolezza che esso esige una fatica di adattamento da parte nostra per accostarci ad un'incognita. ln fondo è pigrizia mentale, è paura di cambiare.
Il diverso alla fine dei conti è uno che «diverge» da noi, cioè chiaramente non è noi ma è contemporaneamente uguale perché uomo o dorma, con gli stessi nostri problemi, speranze, difficoltà, attese, esigenze.
Il diverso non andrebbe considerato come portatore di differenze, ma di arricchimenti. Si tratta quindi di operare un'inversione di tendenza, un'anticultura in questo ambito e iniziare a riconciliarci con la diversità, con il diverso. Dalla cultura dell'intolleranza, verso la cultura dell'accoglienza. E per noi cristiani questo è Vangelo.

Autore:
Albino Michelin
11.03.1999

Nessun commento:

Posta un commento