giovedì 22 ottobre 2015

SECONDA GUERRA MONDIALE: LA MIA ESPERIENZA

Qui non mi interessa fare un resoconto storico sui motivi e sulle conseguenze dell’ultimo conflitto mondiale(1940-45), quanto piuttosto quello che io stesso ho vissuto e che in parte ha segnato la mia vita. Sono nato nel 1932 a Sovizzo in provincia di Vicenza e il 12 ottobre del 1942 all’età di 10 anni sono entrato nell’Istituto missionario Scalabrini di Bassano del Grappa, città che dista 40 km dal mio paese di origine. Un totale di 600 alloggiati fra ragazzi delle medie, ginnasio, professori, preti, pensionati. In quell’anno della guerra noi si sentiva solo parlare, ma ci sembrava una realtà molto lontana. Le cose sono precipite l’8 settembre del 1943 quando l’Italia stipulò l’armistizio e il rapporto con i belligeranti si capovolse: con gli amici tedeschi diventammo nemici e con gli anglo americani diventammo alleati. Ci accorgemmo subito dai rapporti quotidiani sulla strada: molti nostri militari fascisti della nuova Repubblica sociale di Mussolini, detti Repubblichini, passarono dalla parte dei tedeschi, i renitenti invece si separarono in formazioni filo americane e si chiamarono partigiani. Ed anche l’Italia del popolo si divise in due fronti, nemici in casa e in famiglia. Il primo vero episodio ci capitò il 7 novembre  42. Davanti ai cancelli dell’Istituto arrivarono dei capi, con i tedeschi e diversi camion. Era di domenica e ci si trovava in chiesa. Il Superiore interruppe il rito, ci disse di portarci tutti davanti al cancello. Il colonnello reclamò lo sfratto immediato perché l’istituto doveva servire come sede del comando di guerra delle Prealpi venete. Il missionario superiore intimò: “qui non entrerete mai, diversamente questa sarà la vostra tomba”. Invano, dopo due giorni di trattative i repubblichini sfondarono i cancello e invasero il Collegio. Tutte le aule scolastiche e i vari locali furono occupati da militari e impiegati dalla Decima Mas, con grande impianto di telefoni e di telegrafi. Noi fummo costretti a portarci banchi e cattedre della scuola nei corridoi, o all’aperto. Iniziava la stagione invernale e ci riparavamo dal freddo con mantelli e coperte, ma sulle mani comparvero i geloni che ci facevano soffrire e ci rendevano difficile scrivere temi e dettati. Nei sotterranei del Collegio il Comando militare nascose armi, divise, scarponi, ogni abbigliamento adatto alla guerra. Si cominciava a sentire notizia di bombardamenti americani nelle grandi città e si temeva che anche il nostro collegio diventasse un obbiettivo da colpire. Se non che un intervento del vaticano riuscì a farlo passare come struttura umanitaria, tipo ospedale, scuola pubblica, ingiunse di colorare il tetto della bandiera papale allo scopo di evitare attacchi mirati. Dopo 4 mesi il Comando ricevette l’ingiunzione di trasferirsi in un altra sede, Villa Dolfin, e così potemmo avere un breve periodo di tranquillità. Fino a che arrivammo al martedì 26 settembre del 1944. Alle 15 suonarono le sirene di tutta la città, era l’ossessionante allarme, un lamento lugubre e doloroso, come d’altronde tutti gli allarmi che stavano sempre diventano più frequenti di giorno e di notte. Arrivò anche via radio comunicazione di uscire dalla città e trasferirsi nelle colline vicine. Alle 17 cessato allarme e ritornammo in collegio. Dalla terrazza si ebbe a vedere uno spettacolo agghiacciante e drammatico: ad ognuna delle 38 piante della strada chiamata “Viale delle Fosse” era impiccato un giovane partigiano. Altri penzolavano impiccati in strade limitrofe. Si trattava di uomini chiamati “partigiani” che per sfuggire alla deportazione in Germania e ai campi di concentramento e di sterminio si erano rifugiati da qualche mese sulle macchie del Monte Grappa, ma che in un rastrellamento a tappetto organizzato dalle SS tedesche (Schutz-staffel=squadre di protezione) unitamente ai repubblichini di casa nostra erano stati catturati. La città di Bassano alla fine venne decorata con medagli d’oro, ma nessuno più le ha restituito i suoi figli migliori. Io avevo12 anni, era il primo di tanti traumi che sarebbero seguiti. Dal gennaio 1945 ogni giorno dovevamo rifugiarci nei sotterranei perché i caccia sbucavano dai monti e scendevano in picchiata sulle nostre teste per fare saltare i due ponti sul fiume Brenta, quello nuovo distante 400 metri e quello vecchio, detto ponte degli alpini, gioiello storico del Palladio,300 metri. Di notte invece passavano gli aerei detti Pippo, (Pyper, di ricognizione che bombardavano dove vedevano luci accese) e noi allora ci si riparava sulle colline vicine. Finché si arrivò a lunedì 23 aprile 1945. Alle ore 13 eravamo nei cortili a giocare e sentimmo avvicinarsi il rumore sordo, cupo di morte delle fortezze volanti, suddivise in squadriglie, ricoprendo il cielo di Bassano. L’allarme non era stato dato perché andato distrutto l’impianto, noi si pensava che proseguissero a bombardare Udine o Treviso. Improvvisamente un boato, tanti boati in successione, oscurato il cielo, ci siamo riparati nelle aule più vicine, i vetri saltavano in frantumi, sconquassi di porte per lo spostamento d’aria. Sembrava un’eternità: anche le gente del quartiere e del vicinato si era tutta riversata in collegio, chi piangeva, chi gridava, chi cercava persone care e familiari, chi si raccomandava l’anima a Dio. Dopo un’ora di apocalisse, ritornò dovunque un silenzio di tomba. I due ponti erano stati distrutti, ma anche tanta parte della città. Diverse bombe erano rimaste inesplose nel nostro orto e nei campi adiacenti. In quello stesso giorno via radio si venne a sapere che il fronte angolo americano stava muovendo da Bologna, che quello tedesco era in ritirata verso la Germania, via Bassano, Valsugana, Trento. Il nostro Superiore ebbe la “nobile pensata” di inviare un telegramma urgente alle famiglie:” subito riprendere i figli perché in gravissimo pericolo”. Di Sovizzo eravamo quattro ragazzi: Davide, Gabriele, Florindo e il sottoscritto. Le strade erano un’imboscata continua fra partigiani e tedeschi, morti, giustiziati, arsi vivi, impiccati quasi ad ogni angolo, sparatorie in continuazione, vendette sommarie, rese di conti. Mercoledì 25 aprile i nostri papà partirono all’alba, alle 4 del mattino, con bicicletta, ma attraversando campi e sterpeti, e si fecero 45 km. Alle 13 arrivarono a Bassano affamati e stremati, poterono rifocillarsi e partimmo in otto all’avventura per il ritorno in famiglia. Sempre attraverso sentieri di campagna, e distanziati per non dare sull’occhio di essere una pattuglia nemica (di chi?). Cosi ci demmo appuntamento ad una cava di ghiaia dopo 20 km. a zig zag in un paese chiamato Sandrigo. Io e mio padre arrivammo ultimi e trovammo i nostri della compagnia senza bicicletta. I tedeschi l’avevano loro rubata. Fortuna volle che non li avevano giustiziati come traditori. Forse un po’ di pietà per quattro adulti che accompagnavano ragazzi inermi l’avevano avuta. La sera verso le 20 arrivammo ad un paese chiamato Villaverla e il parroco informatosi da dove si veniva ci diede la cena e ci distribuì chi in cantina, chi in granaio. Io ebbi un divano con mio padre all’ingresso. Nottetempo scoppiavano bombe a mano davanti all’abitazione, un gruppo di partigiani entrò gridando “Decimazione, qui ci sono dei traditori”. Convintisi della nostra situazione ci lasciarono e se ne andarono. Al mattino del 26 aprile riprendemmo la via del ritorno, attraverso boschi, sempre lontano dalle strade, dai centri abitati e dai paesi bruciati dalla rappresaglie. A mezzogiorno arrivammo ad una contrada, chiamata Torreselle, ed una famiglia ebbe compassione, ci preparò la tavola e ci diede ogni ben di dio come solo i contadini sanno fare. Ho appreso di persona che sono sempre i poveri ad aiutare i poveri. E riprendemmo il cammino. Attraverso siepi e boschi ci avvicinavamo a casa e ovunque si incontravano gruppi non più di tedeschi, ma di partigiani. Ogni volta posto di blocco, era una perquisizione, ci prendevano per spie fasciste e anche lì si poteva finire male. Verso le 20 arrivammo nella nostra corte. Il paese si era quasi tutto riversato in quell’aia, in ansia ed in angoscia per timore che dopo due giorni di attesa non tornasse più nessuno e tutti fossimo stati uccisi. La gente si commosse, era esausta per l’attesa, non aveva neanche la forza di esultare. Ma fu festa grande per lo scampato pericolo. Alla notte fra giovedì 26 e venerdì 27 aprile sulla statale Verona-Vicenza, 3 km. da casa mia sentimmo i carri armati americani e tutto il fronte anglo- americano passare, gli ultimi colpi di cannone all’entrata in città, la guerra era finita. Impressioni? E’ molto diverso leggere libri di storia e sentire racconti di guerra dal passarci dentro. Sopravvissuto per caso o per fortuna mi fa molta pena oggi vedere masse di gente che viene in Italia e in Europa fuggendo dai paesi dove una guerra finisce ed un’altra incomincia, e sentire la nostra gente che incita a sparare a vista sulle carrette del mare. Chi non ha sofferto non saprà mai capire né compatire.

Autore:
Albino Michelin
09.05.1998

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