Qualche
anno fa sembrava una prospettiva remota, oggi è attuale, uno fra i più drammatici
problemi europei con cui dobbiamo fare i conti: la disoccupazione e il
precariato soprattutto nelle fasce giovanili. La logica del neocapitalismo, cioè
produzione, consumo, profitto in una spirale senza fine ci sta dando un conto
molto salato. Esperti di economia prevedono e paventano che fra qualche decennio
andremo verso il 50% dei disoccupati, cioè il meglio della nostra gioventù a spasso.
Già i dati attuali sono allarmanti: oltre 90 mila nel 2013 sono stati i
20-40enni che hanno lasciato l’Italia, praticamente il doppio degli stranieri arrivati.
I nostri sono andati 13 mila verso l’Inghilterra,12 mila in Germania, 10 mila in Svizzera, 8
mila in Francia. In maggioranza lombardi, veneti, i laziali. E’ la nostra parte
migliore che espatria. Mentre invece in genere i giovani del sud emigrano verso
il nord Italia. Sempre se non riusciremo ad inventare altre guerre per occuparci
in missioni di pace. Il presentimento ce l’avevamo già da tempo: grandi ditte e
firme di produzione si trasferiscono verso l’Asia a motivo del basso costo
della mano d’opera. Ci si domanda dove finiranno tutti i nostri ragazzi
laureati in telematica e le ragazze dottorate in pedagogia. Qualcuna maestra
d’asilo, sempre che ci nasca qualche pupo in più altrimenti si ritorna fare la
calzetta. Il lavoro a tempo indeterminato ce lo possiamo scordare: ovunque in Europa
sta aumentando il precariato, cioè l’assunzione a tempo determinato, sei mesi, un
anno e poi il rischio di fare gli ambulanti, pedalare qua e là per trovarsi un’altra
occupazione. A queste considerazioni fa un po’ eccezione il nostro sud, dove si
costata che di Italie veramente ce ne sono due. Nel senso che nei bar e nelle
trattorie a lavare i piatti vengono impiegati gli immigrati dell’est mentre i
nostri di ogni età preferiscono esibirsi nella sfilata lungo il corso del paese
pavoneggiando abbigliamenti da favola, firmati ultima moda. Oppure tutto il
giorno si vedono in piazza giovani con tanto di pettorale: operatore sociale, operatore
turistico, operatore ambientale, operatore ecologico. Che stiano a fare
ciondoloni tutto il giorno non si sa, intanto intascano 800 euro al mese. Alla
faccia. Infondo però si prova una pena anche per costoro. Vengono in mente gli
slogan dei napoletani anni 1950, i quali ai comizianti che gridavano:” italiani
vi daremo pane e lavoro” rispondevano:” a noi basta il pane, tieniti il
lavoro”. Purtroppo invece oggi da noi i giovani sono sottoposti a estenuanti
selezioni, a sfibranti concorsi con scarsi risultati. Lamentano e con piena
ragione che in Italia non esiste una giustizia ed una meritocrazia: amicizie, e
favori. Non rimane che incollarsi all’internet per cercarsi qua e là lavoricchi
e posti vacanti. Nel loro volto si legge sfiducia e insicurezza del futuro, persino
paura della vita. Si ricomincia ad emigrare anche se oggi questa necessità
viene chiamata turismo. Con una certa differenza dalle ondate emigratorie
avvenute dal 1870 al 1960 quando si partiva con la valigia di cartone, non si
prevedevano scadenze di ritorno, si andava un po’ all’avventura e per tutta la
vita. “Mamma mia dammi cento lire che in America voglio andar”. Poi magari il
bastimento affondava e il viaggio della speranza finiva in mare. Oggi si parte
in aereo con ritorno in famiglia e nei luoghi di origine a ritmo stagionale o più
frequente. Al di là di tante analisi sociali e considerazioni moraleggianti
sulla gioventù moderna il principale valore da garantire ad essa è il lavoro, prima
ancora del matrimonio, della famiglia, della chiesa. Nel passato un lavoro
significava sacrificio, sudore, mezzo per guadagnarsi il paradiso dopo questa
vita terrena, oggi il lavoro vuol dire dignità, e non averlo ci si sente appunto
senza dignità. Il sentimento dell’autoesclusione. I giovani non hanno il
coraggio di mostrare all’esterno la loro rabbia, vengono “agiti”. Lo sanno ma
non riescono a reagire. E la rabbia repressa puo’ essere una minaccia ed una
miccia pericolosa. L’imprenditoria attuale “usa e getta” li butta in
un’angoscia non solo individuale ma generalizzata. Il lavoro, proprio perché
non c’ è è infinitamente più alienante di qualsiasi lavoro pur pesante, tipico
del passato. Si potrebbe veramente ricostruire il calvario del disoccupato, con
tutte le sue stazioni come quelle della via crucis e dalla passione del
Signore. Nella prima stazione ci contempla il dolore, nelle altre via via la
paura, l’incertezza, la vergogna, i sensi di colpa, il sentimento della propria
nullità. Il disagio per la perdita di lavoro è dalla maggior parte di noi
misconosciuto, ma causa danni morali irreversibili. Diminuisce l’autostima, disgrega
le famiglie, frammenta la comunità, fa perdere il senso della propria identità
e della centralità dell’uomo: un oggetto che puo’ venir scartato ed eliminato.
Non solo l’anziano, l’adulto, ma un giovane? Vuoto a perdere. I politici al
governo parlano e parleranno sempre di aumento dell’occupazione con alchimie di
cifre, ma incantano solo i serpenti. Tempo fa Anna Maria Gori ha scritto un
libro dal titolo” Gli esclusi”. Parlano i protagonisti. Una voce dal coro:” per
tutta la vita ho vissuto il piacere del lavoro, poi all’improvviso è cambiato
tutto.” Si muore dentro di noi in tanti modi ma questa per i giovani è
certamente la malattia e la morte peggiore.
Autore:
Albino Michelin
Anno 2015
Nessun commento:
Posta un commento