venerdì 7 agosto 2015

FIGLI DI MAFIOSI: DUE REAZIONI OPPOSTE

Potrebbe essere una dramma di coscienza per i giovani della nostra generazione il “come” porsi di fronte alla mafia e alla ‘ndrangheta. Tacere? Adeguarsi? Testimoniare? Collaborare con la giustizia? Fra i tanti casi abbastanza emblematici, seppure un po’ distanti nel tempo e nello territorio geografico ci possiamo mettere quello di Rita Atria del 1992 in Sicilia, e quello di Vincenzo Scerbo del 2012 in Calabria. Il 31 luglio del 1992 mi trovano a Partanna, vicino a Selinunte in quel di Trapani e sulla piazza del cimitero si stava iniziando un funerale. Nessuna liturgia in Chiesa, la bara posta sopra un palco senza fiori, non c’era la banda a suonare l’Ave Maria di Schubert, come Rita aveva desiderato nel suo diario. A lato un gruppo di donne provenienti da Palermo con un grande striscione: ”Rita non ha peccato, Rita ha parlato!” C’era pure il parroco della cittadina don Calogero Russo che fece la sua predica ad una popolazione muta e diffidente. Si dilungò a parlare di suicidio e di depressione, un requiem di rito, e tutto finì lì. Che osa era successo? Rita Atria, una ragazza di Partanna, che annovera ben 11 vie dedicate a forze dell’ordine uccise dalla malavita, a 11 anni si vide portare in casa la salma di suo padre crivellato da una cosca rivale, a 16 anni perdette un fratello davanti al bar centrale di Montevago pure ucciso nello stesso modo. A casa la ragazzina fin dall’infanzia non aveva sentito parlare d’altro che di delitto d’onore, di omuncoli, di quaquaraquà. La madre gestiva il tutto con intelligenza e omertà. La figlia non ne poteva più, e per non essere cacciata di casa, riuscì ad entrare in un istituto alberghiero di Sciacca. Voleva togliersi da tutto e fare la cameriera. Andò dal pretore e decise di parlare. Questi temendo per la sua incolumità la affidò alla protezione giuridica di Paolo Borsellino che la fece trasferire a Roma in un piccolo appartamento con la cognata, essa pure da tempo decisa a collaborare con la Giustizia. Sempre sul suo diario si legge:” giovani, se vogliamo cambiare, ce la possiamo fare. Ma prima la mafia si combatte dentro di noi e poi nel nostro ambiente, fra siciliani.” Come tutti sappiamo, poco tempo dopo il giudice Borsellino venne ucciso, ovviamente dalla mafia. Rita si sentì perduta, senza punto di riferimento, senza appoggio. Il 19 luglio 1992 al pomeriggio la trovarono morta sul selciato di Via Amelia, gettatasi del balcone. Aveva 18 anni. A fine luglio 2013 ripassai a Partanna e volli incontrare l’ex parroco don Calogero, verso i cento anni, per riparlare più pacatamente del caso. Mi fu impossibile, data la risposta:” i giornalisti hanno infangato già troppo questo paese. Questa è gente onesta. Famiglie sane che frequentano tutte le domeniche la chiesa”. Fine del discorso. Me ne andai al cimitero alla tomba di Rita. Era scomparsa la sua foto, già strappata nottetempo dalla madre la notte dei morti del 2 novembre 1992, tre mesi dopo il funerale, a cui essa non aveva voluto partecipare. Però era visibile una piccola insegna scolpita nella pietra:” La verità vive.” Rimasi in silenzio e in adorazione per qualche istante.
Il secondo caso riguarda un altro giovane e precisamente Vincenzo Scerbo di Isola Caporizzuto, provincia di Crotone in Calabria. Sacerdote novello di 26 anni, che all’inizio luglio 2012 celebrò la sua prima messa nel Duomo del paese. Qui tutt’altra liturgia, luminarie, ceri, addobbi, concerti d’organo e di trombe, popolazione festante. Suo nonno pure di nome Vincenzo, accusato di associazione per delinquere era stato ammazzato dalla ‘ndrangheta, suo padre Romolo detenuto in carcere da tre anni per estorsione aggravata da metodi mafiosi e affiliato alla cosca egemone degli Arena. Il sacerdote novello va all’ambone e ti innesca una filippica inconsueta. Inizia dicendo che vuol parlare da figlio e non da prete, a favore di suo padre innocente. Il tenero pretino trascina pure l’altissimo Iddio in questa sua faccenda personale:” Ti prego Dio affinché la tua giustizia intervenga là dove la giustizia umana di questo mondo ha mostrato tutta la sua meschinità e la sua grettezza. E anche la chiesa con i suoi pseudo documenti antimafia non fa certo un servizio alla verità. Mio padre è innocente!” Il parroco don Edoardo e il sindaco con la fascia tricolore allibiti e tutta la gente a piangere con lui. Ma poi tutto finisce in gloria. Non si può negare che anche questo don Vincenzo ebbe in famiglia un percorso difficile. Ma la risposta è stata diversa: Rita Atria di 18 anni apprendista alberghiera che esce di casa e si distanzia da un ambiente e lo condanna. Don Vincenzo di 26 anni, culturalmente e religiosamente preparato, che lo difende e quindi lo giustifica, strumentalizzando persino chiesa e luogo sacro. Non interessa il nostro giudizio morale su di loro, quanto quello che essi ancora rappresentano. Due costumi, due mondi diversi di affrontare la malavita e la criminalità organizzata. Politica, scuola, chiesa dovrebbero seriamente interrogarsi su quali strumenti adottare per sanare una piaga che mette in pericolo il futuro delle nuove generazioni.
                                                                                             
Autore:
Albino Michelin
04.12.2013

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