lunedì 14 dicembre 2015

FEDE OGGI: CONVERTIRSI ALLA GIOIA

È questo uno di quegli argomenti che aprono un po' il cuore all'ottimismo. Spesso qualcuno si chiede il perché di un cristianesimo a volte così pessimista, il perché di una chiesa cattolica così spesso solo poliziotta e guardiana di precetti e divieti, di un apparato clericale che esercita il suo potere con il giudicare e condannare. Ha un bel parlare Gesù di Vangelo come lieto annuncio e gli angeli di Betlemme un bel cantare "pace in terra".  Fra i tanti aspetti che coinvolgono questo messaggio preferisco soffermarmi soltanto su uno: colpa, colpevolizzazione, confessione. In pratica sulla confessione privata sottoposta al prete. Lutero già al suo tempo sosteneva che questa prassi può diventare una tortura della coscienza anziché una sua terapia. Vivere in mezzo alla gente e lasciarla parlare diventa un osservatorio privilegiato e sperimentale in materia. Molti lamentano il fatto che quando vanno in chiesa si sentono subito allontanati con quel ripetuto invito a riflettere sui propri peccati, a chiedere perdono a Dio e ai fratelli, a battersi il petto. Insomma nessun senso dell'autostima, tutto nero, totale svalutazione dell'essere umano. Altro che gioia, è una sensazione di gelo. Poco tempo fa un contadino che non frequentava assiduamente la messa sentì apostrofarsi dal suo prete: "la tua anima è più sporca della gerla del letame che porti sulle spalle" con l'ingiunzione di andarsi a confessare al più presto. Recentemente un ex emigrato, residente in Abruzzo, mi diceva che il giorno peggiore, o fra i peggiori della sua vita era stato quello della prima comunione, perché non aveva avuto il coraggio all'età di nove anni di confessare un peccato al prete. E nella foto di quella festa appare ancora oggi cupo ed emaciato a perenne memoria del grande giorno. Ma da allora un addio definitivo ai preti e ai loro confessionali. Indubbiamente l'educazione al senso di colpa è sempre pedagogico e salutare per ciascun uomo in via di sviluppo e in età matura. Sbaglia e si fa del male colui che sostiene essere oggi tutto lecito e che niente è peccato. Ma il senso morboso di colpa, come spesso inculcato da certa chiesa, conduce solo a brutte nevrosi o a totale abbandono della prassi penitenziale.
                              Confessione privata: pagare dazio, una umiliazione.
E qui vale la pena essere chiari: nulla oggi è posto tanto in discussione come la confessione privata. In un mondo in cui patrizi e plebei sentono il bisogno dr confessarsi pubblicamente in Tv, nelle parrocchie invece si riscontra un calo, una diserzione, tutt’al più un formalismo. E non è che l'emorragia si ristagna ingiungendo ai preti tramite circolari dall'alto di mettersi a disposizione dei penitenti (quali?), di ricuperare questo sacramento perché esso va rivisto, riletto, rifuso alla base. Ma molti preti si guardano bene dal sollecitare tale rifondazione: sembra di perdere tutto Il loro potere. Però le dispute e divergenze fra il clero stesso sono enormi: basta aprire gli occhi in ogni nostra parrocchia svizzera. Ma ovunque teoria e prassi, interpretazioni storiche e tradizioni devozionali si mescolano e si confondono in un autentico ginepraio. C'è chi ti viene a dire: "la sera prima del matrimonio il parroco del mio paese ha obbligato me e il fidanzato a confessarci privatamente. Ho detto quello che ho voluto, tanto dovevo pagare dazio ma che ho fatto l'amore prima del matrimonio non gliel’ho detto.” (Eh, no figliolo, questa reticenza è sacrilegio ti potrebbero rispondere). C'è invece chi all'inizio della messa nuziale invita sposi novelli e comunità ad un esame di coscienza e poi impartisce la dichiarazione di assoluzione comune. C'è chi fra i preti consiglia di utilizzare la messa domenicale con relative preghiere come valida confessione sacramentale, e chi invece durante la messa ti invita una serie di frati confessori nell'apposito abitacolo per impartire l'assoluzione a scopo comunione, squalificando così la serietà della messa, e affibbiandoci accanto un doppione di indebita concorrenza. Ci sono pastori d'anime che obbligano la gente a confessarsi una volta l'anno, oppure ogni tre mesi, oppure per ottenere la remissione dal peccato mortale, salvo poi a non essere d'accordo sul significato dello stesso. C'è in effetti chi lo ravvisa nell'ammazzare una persona, e chi nel tralasciare la messa festiva. Fra i cristiani c'è chi va alla confessione frequente per recitare il menù dei peccati e continuare poi bellamente nella vita a ripeterli e chi ci va per sentirsi umile ed umiliato, perché solo così si sente cristiano. Che rispondere? Che anzitutto è importante confessarsi a Dio. Non è una burla, né scappatoia di comodo. Solo Dio può rimettere peccati (Luca 5,21). Sì, perché la confessione è prima di tutto dire onestamente a se stessi e riconoscere davanti a Dio che le cose dentro di noi non vanno molto bene e bisogna darsi una mossa. Questo processo si chiama conversione. Ma poiché noi siamo anche persone di relazione dovremmo esprimere tale conversione interiore con un gesto esteriore impegnato e sincero, si chiama sacramento. Ora se compio una carognata col mio prossimo non ha senso dirlo al prete in confessionale, ma è doveroso riappacificarmi con una scusa od un saluto presso l'offeso. Questo gesto esteriore, frutto di convinzione interiore è già sacramento. Ampliamo il discorso? Il proprietario di Parmalat, dopo il Crac con truffe e truffati, non ha senso vada a prendersi il suo confessore in privacy e gli racconti la bancarotta, ma deve chiedere scusa e restituire ai risparmiatori, ai nuovi poveri. Solo questo è sacramento attraverso cui riceverà il perdono di Dio. In tal senso vale e bisogna ritornare a quanto si dice in materia nel Nuovo Testamento e nei Vangeli. “Confessatevi a vicenda i vostri peccati” (Giacomo 5,16), oppure l'altra espressione di Gesù che sta a fondamento legittimo della cosiddetta confessione comunitaria attuale: "Dove due o tre sono riuniti nel mio nome là ci sono io" (Matteo 20,20)
                                   Confessione privata, data di fondazione 1215
Molti ripetono come dei robot il brano di Giovanni (20,22) manipolandolo e clericalizzandolo. Gesù dice ai discepoli (quindi non solo agli apostoli, ma a tutti i componenti) della sua comunità credente: "pace a voi, a chi rimetterete i peccati saranno rimessi, a chi li riterrete saranno ritenuti". Accanto alla modalità di confessione all'apostolo, e quindi al prete di oggi (Matteo 16,19) Gesù ne sottolinea un'altra, forse la principale, fatta ai laici ed espressa in comunità. Spostare l'accento di questo passo di Giovanni or citato sulla remissione dei peccati e fondare su di esso il sacramento della Penitenza (o confessione privata), come istituito da Gesù Cristo non è corretto. Storicamente nel primo millennio la confessione privata veniva effettuata anche ai singoli laici e ai monaci, poi nel 1215 Papa Innocenzo la rese obbligatoria, auricolare, solo al prete, una volta l'anno. E nel 1560 il Concilio di Trento vi aggiunse il precetto di rivelare al prete ogni peccato mortale, numero, quantità e specie sotto pena di sacrilegio. Tutto questo discorso per sottolineare non tanto che la confessione non esiste più, ma che va riproposta con diversi modelli, e non solo con quello privato. Ma anche in tal caso essa va rifondata non tanto come obbligo, ma come un bisogno per l'uomo. Solo così questa componente della fede sarà un convertirsi alla gioia.

Autore:
Albino Michelin
07.05.2004

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