martedì 16 giugno 2015

PADRE PUGLISI. UNA SPERANZA PER LA SICILIA

Sono passati 10 anni dalla tragica sera del 15 settembre 1993 in cui nel Rione Brancaccio di Palermo venne assassinato Padre Giuseppe Puglisi (detto don Pino), 55 enne parroco, impegnato nella rinascita di quella zona disagiata e per un'educazione democratica dei giovani che egli tentava di strappare dalle lusinghe grinfie della mafia. E dalla stessa mafia venne puntualmente eliminato. Ho avuto la fortuna di conoscerlo personalmente il 24 luglio di quell'anno, nemmeno due mesi prima della morte, portando con me quale argomento di conversazione un libro uscito nel gennaio dello stesso anno intitolato "Una ragazza contro la mafia", scomparsa nel luglio del 92 in seguito all'eccidio di Paolo Borsellino, essa pure decisa a rompere il muro del silenzio. Si tratta di Rita Atria di Partanna (Trapani). Dal mio bloc notes traggo anche il tipo di domande poste a don Pino: "che cosa ritieni prioritario come prete in quel quartiere malavitoso, quali risultati concretamente sul piano dell'occupazione e del tempo libero, che tipo di religiosità proponi al popolo, in quale rapporto ti situi con la chiesa ufficiale dell'isola. Le tue relazioni con Cosa nostra". Una serie di argomenti che al tempo non si potevano porre a tutti i preti perché la maggioranza li considerava fittizi, calunniosi, creati intenzionalmente dai giornalisti del continente. Don Pino invece mi conversava su questi temi come fossero il suo pane quotidiano. Di carattere non aggressivo né fazioso, ma fermo e deciso, era convinto che la vita va spesa per degli ideali, magari difficili, irraggiungibili, utopici, bandendo però ogni genere d'interessi personali. Con i giovani affermava la coscientizzazione, fatta d'informazione, cultura della parola chiara e della denuncia. Il tutto per una guerra non violenta contro l'omertà. Certo la sua parrocchia non poteva sostituire l'ufficio di collocamento e del lavoro, ma si dannava l'anima per togliere i giovani dalla strada e accompagnarli verso una possibile occupazione.  Le sue liturgie e messe domenicali erano tutte orientate verso il sociale. Alla mia domanda come egli si ponesse di fronte alla sagra di Santa Rosalia, patrona di Palermo, mi rispose (ovviamente) definendola evasione, esibizionismo, manipolazione popolare, spreco di denaro. Il tutto assicurato dal potere mafioso, ovunque e sempre disponibile a sostenere quello sacro allo scopo di conservare e garantirsi la clientela e il sostegno elettorale. Ma Don Pino non si lasciava né giocare né intimidire. Esempio di una chiesa nuova che vive nella città e per la città, insieme con la gente portando il peso di ciascuno.
                                                          Un prete solo contro tutti.
In questa Brancaccio sovraccarica di problemi sociali, morali, culturali P. Puglisi era immerso sino al collo nel senso che li sentiva suoi, e per la cui soluzione spendeva tutto il suo tempo. Geloso della vita e della libertà della sua gente venne ucciso perché i mafiosi non sopportavano un prete poco tradizionale, contrario a riconoscere il loro potere, ad ossequiarli, a temerli. Prete outsider, atipico, alternativo che faceva sul serio per la libertà e l'autonomia dei giovani e dei bambini. Per la conservazione del potere mafioso sul quartiere ovviamente un pericolo incontrollabile, mortale. Logica quindi la sua eliminazione. Sempre dai miei appunti del colloquio vedo risaltare un'affermazione del parroco di Brancaccio: "solitudine". Don Pino si sentiva solo. Non certo dal punto di vista affettivo e familiare, cioè perché gli mancasse una compagna e dei figli, ma perché si sentiva abbandonato dalla chiesa o per lo meno non sufficientemente sostenuto. Nessuno dei suoi confratelli e dei superiori ecclesiastici che battesse quella strada, che desse la precedenza a quelle scelte. Tutti rimanevano sul devozionale e si limitavano al sacramentale. Alle spalle si trovava un mondo cattolico impreparato. Privo di un piano pastorale organico che prendesse in considerazione e si misurasse con il problema mafioso. Una chiesa siciliana quiescente in pacifico idillio con gli amici di Cosa nostra che per un piatto di lenticchie si lasciava ridurre al silenzio. Privata di voce profetica, essa rinunciava a parlare in nome di Dio in favore del popolo oppresso. Sempre sull'onda del defunto Cardinal Ruffini che negli anni '70 rifiutava i comunisti perché non frequentavano la chiesa e benediceva i mafiosi perché assidui in bella mostra ai primi banchi. Collusione lenta a morire e che causava nel nostro   Padre   Puglisi   un profondo senso di sgomento e di solitudine. A conferma di ciò anche oggi dopo anni dalla morte non mancano coloro che a ragione sostengono avere la chiesa siciliana perso allora un’occasione storica. Essa in effetti non ha voluto costituirsi parte civile il che sarebbe stata una dimostrazione a tutti per dirci da che parte essa stava. E cosi don Pino dopo morto è rimasto doppiamente solo, abbandonato. Lorenzo Matassa, pubblico ministero rappresentante dell'accusa nel processo restò pure lui solo, senza verità su quella morte, ostacolato dal silenzio e dall'assenza totale di parti civili. L'allora cardinale Pappalardo sollecitò l'autopsia per celebrare subito le esequie. La sua chiesa non era interessata né ai killer, né all'assassinio, né alle cause, né ai mandanti dello stesso.
                                                     Don Puglisi, martire per amore
Il parroco di Brancaccio non morì per caso né per errore. La sua morte ebbe un'aberrante logica, una spietata necessità. Le ragioni della sua eliminazione furono le stesse di quelle per cui sono morti Mattarella, Falcone, Chinnici, Zucchetti, Borsellino, ecc. in parte simili a quelle di Gesù Cristo. Sono morti tutti per la nostra libertà, per la giustizia della loro città, della Sicilia, del mondo. Il martirio non si improvvisa, né entra per caso nella partita finale di un uomo. E' il tocco più emblematico e più alto della sua vita e della sua storia. Ora però bisogna evitare un pericolo già in agguato. Quello di associare P. Puglisi all'idea di santo e di altari in senso devozionale, anche per non affibbiargli quanto lui stesso aborriva: il trionfalismo. “Caro don Pino, amico di quel lontano 24 luglio, 1993 spero: non ti metta anche tu a far miracoli; perché imbalsamato e ingessato tutto di te finirebbe nel fumo delle candele e nella esposizione muraria di troppe stampelle. E così il tuo messaggio resterebbe muto e solo per tutta l’eternità. A Roma qualcuno vorrà farti santo. Fai attenzione all'ammucchiata, perderesti in qualità. Santi lo siamo tutti (Paolo, 2a Corinti, 13-12) perché chiamati a seguire le orme di Gesù. Tu resta sempre e solo quello che sei stato: un martire, cioè un testimone del Vangelo. La tua chiesa siciliana, per ragioni storicamente comprensibili, non era riuscita ad insegnare né ai laici né ai preti il piacere della libertà e dell'autonomia da Cosa Nostra. Fin'ora è stato cosi. In futuro forse no, se anche tu ci metterai una pezza. E' anche su di te che si fonda la nostra speranza".

Autore:
Albino Michelin
16.10.2003

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