venerdì 3 luglio 2015

QUANDO LA MORTE NON È UGUALE PER TUTTI

Con l'elezione del nuovo Papa Benedetto XVI e l'intronizzazione di rito, per altro meno chiassosa del previsto per innata allergia di Ratzinger nei confronti del populismo, si archivia un certo periodo storico. E mentre si recita l'eterno riposo a Wojtyla in cielo, ci sia concesso pure sulla terra un po' di riposo per una pausa ed un consuntivo. Nel senso che purtroppo di fronte alla morte non siamo tutti uguali. Vi sono morti eminenti ed eccellenti da una parte e morti ignorati e dimenticati dall'altra. A proposito mi viene in mente «A Livella», la celebre poesia in dialetto napoletano di Antonio De Curtis, detto Totò, che in una rissa esplosa di notte in un cimitero fra morti sepolti accanto, cioè fra un marchese eroe di mille imprese ed un ignobile fetente don Gennaro vile carogna, conclude con il dire: «le pagliacciate si fanno da vivi, noi apparteniamo alla morte». Cioè i morti sono tutti uguali. Come pure mi sovviene un'altra espressione letteraria non so di chi: «la morte uguaglia gli scettri alle zappe».  Con ciò non si vuole sottovalutare o svalutare l'impegno di onestà, di professionalità, di fede in cui molti investono la loro esistenza terrena, ma la discriminazione ingiustificata ed insostenibile che noi uomini ci facciamo di fronte e dopo la morte. L'uso che si è fatto dell'immagine del precedente Pontefice malato e morente rappresenta il trionfo di una religiosità invadente e maleducata. Enfatizza le sofferenze del leader religioso, assistito da uno staff medicale degno di un faraone, e cancella di un solo colpo le tante e più dure sofferenze di milioni di esseri umani nel mondo. Pensiamo ai barboni sotto i ponti, ai campi di tortura, ai morti di sete nei deserti della storia. Certo questa stensione di un papa allo stremo, come quando nell'ultimo discorso non potendo parlare spazientito smanacciò il leggio con una sberla, fece a tutti tanta compassione, ma anche altrettanto ci irritò. La sofferenza appartiene a tutti, ad ogni uomo e bisogna rispettarla e farla rispettare circoscrivendola al suo ambito privato. L'uso politico e pubblicitario che si è voluto fare della sua morte è stato una sconcezza.  Né si può addurre ad attenuante il fatto che in Piazza S. Pietro centinaia di reporter si erano dati convegno da tutto il mondo. Quella era l'occasione più propizia per dare un segno evangelico forte.  Gli uomini di Curia avrebbero ben potuto rinviare a casa «i ricchi a mani vuote», come canta Maria, madre di Gesù nel Magnificat (Luca 1,53). Ed invece sono caduti nella trappola, facendoli amaramente ingoiare il proverbio «chi di spada ferisce, di spada perisce». Cioè un papa affidatosi troppo al richiamo dei media ne ha subito alla fine la dura legge: lo sciacallaggio irriverente.  L'uso e l'abuso della retorica del lutto. La prima decisione dopo l'annuncio di morte di Giovanni Paolo Il avvenuta sabato 2 aprile alle ore 21.37 fu il lutto nazionale per tre giorni. Le previsioni «meteorologiche» del giorno precedente dicevano che si dovevano annullare anche le manifestazioni sportive di fine settimana dato che il papa sarebbe deceduto il giorno seguente. E così avvenne. Quando invece, riferendoci al calcolo, molto più indicata sarebbe stata una pausa di silenzio durante le partite con una breve introduzione d'altoparlante: «amici sportivi, in onore del papaboy scomparso, amante dello sport, tutto il pubblico dei tifosi è invitato a tre minuti di riflessione perché la sua memoria ci aiuti in futuro ad evitare episodi di violenza, lancio di fumogeni e oggetti in campo, teppismo all'interno e all'esterno dello stadio prima e dopo le partite». Neanche a pensarlo, solo tre giorni dopo dell'incontro-scontro Milan-Inter si è dovuto interrompere il match per lancio di mazze, bulloni, mine vaganti contro giocatori, spettatori e sostenitori di campo avverso. E domenica mattina 8 aprile abolito il culto evangelico alla radio, soppresso d'autorità e senza preavviso in memoria di un papa ecumenico e aperto a tutte le religioni. In Italia il 3-4 aprile si effettuarono pure le elezioni regionali, in cui fra l'altro si è verificato un terremoto politico con il crac Berlusconi.  Orbene, solo qualche notizia di sfrodo, in uno schermo in continuazione inzuppato di vicende papali. E c'è stato pure nel contempo qualche bel disastro come un nuovo tsunami in Asia con alcune migliaia di morti, se non andiamo errati: non dico un sussulto di commozione, ma nemmeno un mormorio televisivo. Proprio così, non tutti i morti sono uguali. Carmen Corti, un po' stanca del scenario surreale alla Tv martellante e ossessiva, di zucchetti di porpora, di croci brillanti, di video-telefonini con oltre tre milioni di bagliori, scrive nel «Corriere del Ticino» del 16 aprile: «mia figlia di 8 anni quando sentiva tutti questi commenti mi ha detto, anche Paul è morto, eppure tutto questo casino non lo hanno fatto».  Per non parlare poi delle contraddizioni, delle furbizie all'italiana perpetrate attorno alla salma del pontefice esposta a 100 metri di distanza. Giornalisti e annunciatrici della Tv vestite a lutto per presentarsi qualche ora dopo sugli schermi accoccolate su alti seggioloni con vistose aperture di seni e quant'altro. E poi i baristi cattolici attorno a Piazza S. Pietro, estimatori del papa superstar, a vendere bottiglie d'acqua minerale a 6 euro l'una, magari dopo averle rubate a chi ne aveva fatto scorta gratuita per i pellegrini. Che cosa non può fare il lucro in una società di ipocriti.  Non tutti i morti sono uguali, alcuni servono anche più degli altri a far cassetta. Non dico "tutta", ma "troppa" isteria papale, senza offesa ai sinceri credenti che pure ci stavano tra la folla. Qualcuno giustamente può chiedersi quale differenza passi fra una certa isteria manifestata dalle folle per la morte di Diana, di Elvis Presley, Dalida ecc. Per molti nessuna differenza. Solo nella quantità dei fans e nel tipo di personaggio di richiamo. Sia esso principe, divo, idolo o santo. Il singolo ha bisogno della massa per sentirsi meno solo, per esserci, per contare e oggi per apparire in Tv. Messa da morto: per quali defunti?  Dopo la sepoltura di Papa Wojtyla seguirono i novendiali. Cioè 9 giorni con messe celebrate in suo suffragio. Non vogliamo qui entrare in merito alla teologia dell'aldilà, del purgatorio, ecc. Ma quale povero cristiano può permettersi tanto lusso, tanta attenzione dopo la morte? Forse più indicato sarebbe stato celebrare delle messe-memoria per tutte le persone che costituirono scopo del messaggio del pontefice scomparso. Per esempio: 1) per tutti i deceduti nelle guerre; 2) per tutti i morti di fame; 3) per tutti i morti d'incidente; 4) per tutti i morti di Aids; 5) per tutti i morti sul lavoro; 6) per tutti i morti nelle tragedie familiari; 7) per tutti i bambini morti abbandonati; 8) per tutti gli assassinati dalla mafia, camorra, ndrangheta; 9) per tutti i vecchi morti di solitudine. Ecco una serie di motivazioni, scelte a caso, che avrebbero potuto costituire il movente dei novendiali, cioè delle 9 messe in memoria del papa, coinvolgendo la sensibilità di tutte le persone del mondo toccate dalle loro tragedie. Ma non tutti i morti son uguali, nemmeno dopo la morte. Casi comunque di sobrietà si sono verificati e vale la pena citarli. Ad esempio in alcune chiese svizzere la memoria del papa defunto si è rinviata alla domenica seguente nella messe di comunità. Degno di menzione il caso di una parrocchia protestante del nostro territorio: il pastore nella liturgia domenicale accese tre candele: una in memoria del pontefice, una per un giovane deceduto in un incidente stradale, una terza per un'anziana deceduta nella casa di riposo. Questo è un bell'esempio di comunione dei santi, nella quale Wojtyla e semplici credenti sono riuniti dallo stesso abbraccio degli uomini di Dio.  A qualcuno fece impressione che durante i funerali la bara del papa defunto fosse stata deposta nel selciato di Piazza S. Pietro. Diamo a Cesare quello che è di Cesare, cioè a Papa Paolo VI, deceduto nel 1978, chiamato Paolo mesto per il suo carattere chiuso e riflessivo, ma di enorme statura morale, in quanto promulgatore e spinta ideale nella realizzazione del Concilio Vaticano Il. Egli lasciò per testamento: «rinuncia al cerimoniale e al fasto tradizionale, bara di legno, posta a terra, abolizione del catafalco». Un papa che ci ha aiutato a capire che tutti i morti dovrebbero essere uguali.  E a concludere citiamo anche S. Francesco, l'ultima strofa del suo Cantico delle creature scritta nel 1220 in lingua italiana delle origini, ma a tutti comprensibile: «Laudato sì mi Signore per sora (sorella) nostra morta corporale, da la quale nullu (nessun) homo vivente po’ skappare ... Beati quelli che troverà nelle sue santissime voluntati (volontà)». S. Francesco, come tutti i poveri del mondo, ha voluto esalare l'ultimo respiro facendosi adagiare sulla nuda terra, senza-Tv, come Gesù sul calvario. Ovvero: quando la morte è uguale per tutti! E questo non nel senso che tutti finiremo nella polvere, ma saremo tutti figli di Dio nel suo Regno, indipendentemente dai ruoli, dagli onori, dai ranghi sociali, dalle infule di cui in questo mondo abbiamo dovuto o amato insignirci.   

Autore:
Albino Michelin
Anno 2005

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